New York, maggio 2002
Un vento tiepido e teso, foriero dei profumi dell’imminente estate, si insinuava tra le costruzioni e assumeva nuovo vigore, mulinando tra le pareti dei grattacieli.
Ground Zero pareva una immensa distesa dove l’odio aveva seminato i suoi messaggi di morte segnando il corso della Storia. Dove sorgeva una delle due Torri era stato montato un palco decorato con drappi e grandi coccarde bianche rosse e blu. Quale luogo poteva essere più adatto alla cerimonia di commemorazione delle vittime del terrorismo?
Il generale Grenshover si trovava al centro del tavolato, al suo fianco il sindaco di New York aveva dipinta in volto una mesta aria di circostanza. Dietro di loro una parata di autorità civili e militari.
Fu l’alto ufficiale a scandire il nome al microfono: «Deidra Curring Blasey… mi correggo», disse ancora il generale. «Invito il colonnello dei marine Deidra Blasey a raggiungere le autorità.»
Deidra Curring Blasey si alzò dalla sua sedia. Dimostrava una cinquantina d’anni; il fisico, solo leggermente appesantito attorno ai fianchi, appariva ancora agile e asciutto: gli estenuanti addestramenti a cui si era sottoposta avrebbero tollerato ben più che qualche chilo di troppo, prima di perdere la loro efficacia.
La donna avanzò con passo marziale, muovendosi lungo linee perpendicolari e sottolineando le svolte con sonore battute di tacchi.
Quando fu dinanzi al generale assunse la posizione di attenti, si portò la mano destra al fregio del berretto d’ordinanza, attese che il superiore rispondesse al saluto, poi parlò con voce stentorea: «Colonnello Deidra Blasey ai suoi ordini, signore».
La voce del generale, amplificata dall’impianto sonoro, calò grave e imperiosa. «Il colonnello Blasey è un eroe della guerra del Golfo. Grazie alla sua capacità e alla perizia nel campo degli esplosivi, molti dei nostri ragazzi non sono saltati in aria sulle mine nemiche. Ma Deidra Blasey è anche una donna… una madre… una madre alla quale una mano assassina ha strappato l’unico figlio…»
Il volto del generale Grenshover assunse un’espressione inattesa e un moto di commozione ne alterò i tratti, mentre appuntava al petto del colonnello Blasey una medaglia al valore e pronunciava parole ricche di sentimento, che esulavano dalle formalità di rito.
Deidra Blasey salutò in maniera marziale, girò sui tacchi e si allontanò. Intanto, la voce del generale scandiva il nome di un altro eroe da glorificare.
Scesa dal palco, il colonnello dei marine strinse nella mano la medaglia d’oro. I suoi occhi erano lucidi ma, dietro il velo delle lacrime, lo sguardo era carico di rancore.
Suo figlio, Martell Curring, tenente dei marine in forza presso l’ambasciata americana al Cairo, era stato dilaniato da una bomba: la mano di un terrorista islamico aveva depositato, nel ritrovo frequentato dai militari americani, un ordigno ad alto potenziale nascosto in una borsa.
Era successo tre anni prima e, da allora, ogni anno le veniva appuntata sul petto una nuova medaglia. Nessuno, però, le avrebbe restituito Martell: era partito da casa con un sorriso e i suoi meravigliosi ventiquattro anni, ma a lei era stata consegnata solo una piastrina di riconoscimento contorta dalla violenza dell’onda d’urto.
Fronte dolomitico, giugno 1915
Domenica 23 maggio 1915 Gualtiero Giuseppe, duca d’Avarna, ambasciatore d’Italia a Vienna, aveva rimesso nelle mani del ministro degli Esteri austriaco, barone Rajecz Stephan von Burian, la dichiarazione « in base alla quale l’Italia si considerava in istato di guerra contro l’Austria-Ungheria a partire dalle ore zero del giorno successivo » .
A questo stava pensando il capitano Alberto Sciarra della Volta mentre apriva con gesti compiti il voluminoso registro dalla copertina nera e dai fogli bordati di rosso.
La prima pagina recava stampato il titolo: Diario Storico-Militare. Sopra a questo si trovava apposto, in inchiostro blu, il timbro del reggimento alpino a cui il capitano apparteneva. A piè di pagina, alcune avvertenze invitavano «… il comando in capo dell’esercito, i comandi dei grandi riparti e delle brigate di fanteria e cavalleria, i reggimenti e i riparti inferiori distaccati presso l’esercito mobilitato, a scrivere a mano a penna, verificare e controfirmare giornalmente: la dislocazione dei riparti al mattino, gli ordini ricevuti o conferiti, le operazioni militari eseguite, le vicende principali che le accompagnarono e le seguirono, le truppe che vi presero parte e lo stato atmosferico della giornata colle sue variazioni » .
In tal modo il Diario, così concludevano le avvertenze, avrebbe avuto inizio nel giorno dell’ordine di mobilitazione e sarebbe stato chiuso nella data in cui, finita la guerra, anche l’ultima classe di leva sarebbe stata congedata.
«Finita la guerra…» ripeté tra sé il capitano Sciarra dubbioso, «se mai finirà questa guerra. Comunque io descriverò, come la patria mi chiede, ogni avvenimento, ogni rumore degli animali in caccia o in fuga in queste notti d’estate tra le Dolomiti imponenti, ogni brivido dovuto agli oltre venticinque gradi di escursione termica tra il giorno e la notte, ogni stella del cielo, ogni azione in questa strana guerra fatta di calme estenuanti e insulti gridati in direzione del nemico, pochi metri oltre la trincea. Speriamo resti sempre così!»
Il rumore dei tacchi sbattuti, appena smorzato dal fango che copriva gli stivali, interruppe i pensieri del comandante di compagnia.
«Comandi, signor capitano!» Il tenente Cassali era goffo e impacciato sulla soglia della tenda da campo. La luce della lampada nell’alloggio del comandante sottolineava l’aria paffuta del subalterno come una lanterna magica mette in risalto le curve e i difetti nel corpo panciuto del comico. «Chiedo scusa, signor marchese… ma… il generale ha appena telegrafato… si teme che dal Col di Lana… gli austriaci…»
«Riposo, tenente, riposo. Anzi, mettetevi seduto ed esponetemi i fatti con calma», Alberto Sciarra sollevò gli occhi dalla prima pagina, ancora intonsa, del diario militare. «… e ricordate, siamo al fronte. Dimenticate i gradi nobiliari e tenete a mente solo quelli delle mostrine verdi di alpino.»
«Comandi, signor marchese-capitano», disse il tenente Cassali sempre più confuso, entrando nella tenda e dirigendosi al centro dell’alloggio per scaldarsi le mani sulla stufa, più per vincere l’imbarazzo che per reale necessità.
Alberto Sciarra si alzò dallo scrittoio. Aprì il mobile alla destra del letto da campo e ne estrasse una bottiglia di grappa. Sorridendo, pensava al modo nel quale lui, nobile di origini siciliane, fosse finito sul fronte dolomitico in un reggimento alpino. Gli occhi scuri come la notte tradivano un carattere dolce, mentre con sguardo paterno osservava il tenente Cassali, più giovane di lui soltanto di pochi anni.
Versò due bicchierini di grappa e si preparò ad ascoltare con pazienza il resoconto del suo subalterno.
Stati Uniti d’America, giugno 2002
Nella casa regnava un ordine assoluto: ogni oggetto sembrava disposto secondo una collocazione che nulla aveva di casuale.
Le mani dalle dita sottili erano avvolte in guanti di gomma sterili. Sul display del computer spiccavano alcune righe di un testo ancora da completare.
La rivendicazione dei due attentati, l’uno alla sede dell’ONU e l’altro alla delegazione irachena presso le Nazioni Unite, contenente descrizioni particolareggiate di cui soltanto l’attentatore poteva essere a conoscenza, era stata vergata con un linguaggio che alternava toni esaltati a parole fredde e asettiche.
Il terrorista avvertiva di aver agito da solo e di non essere legato a nessuna organizzazione, trattando con assoluto distacco, e con il gergo scientifico di un comunicato medico, la questione della morte di undici addetti diplomatici.
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