A parte ficcarmi una forchetta in un occhio, la cosa che mi piace di più al mondo è far visita ai morti. «Grazie, ma stasera devo lavorare. Devo sorvegliare qualcuno per conto di un amico.»
«Peccato davvero» disse la nonna «sarà una gran bella veglia.»
Dopo che la nonna fu uscita guardai una replica dei Simpson , una replica della Tata e un’altra mezz’ora di televisione, cercando di distogliermi dal pensiero di Ranger. In uno sgradevole angolino della mia mente albergava un dubbio sulla sua innocenza nell’assassinio di Ramos. E il resto del cervello era occupato dall’ansia che potesse essere ucciso o arrestato prima che saltasse fuori il vero colpevole. Per complicare ulteriormente le cose avevo accettato di fare quel pedinamento per lui. Ranger era il miglior cacciatore di latitanti di Vinnie, ma aveva anche un’altra quantità di attività imprenditoriali, alcune delle quali erano persino legali. Avevo lavorato per Ranger in passato, con risultati alterni, e alla fine avevo deciso di cancellare il mio nome dalla lista dei suoi collaboratori, pensando che non fosse nell’interesse di nessuno dei due lavorare insieme. Ora sembrava arrivato il momento di fare un’eccezione. Ciò nonostante non capivo bene perché volesse il mio aiuto. Non avevo particolare competenza. Tuttavia ero leale e fortunata, e probabilmente ero anche l’unica persona disponibile.
Quando fu ormai buio mi cambiai d’abito. Un paio di calzoncini da ginnastica elasticizzati, maglietta nera, scarpe da ginnastica, una maglia nera col cappuccio e, per completare il tutto, una bomboletta di spray urticante tascabile. Se fossi stata scoperta mentre andavo in giro a spiare avrei potuto fingere di essere lì per fare jogging. Qualunque guardone perverso usava la stessa scusa e funzionava tutte le volte.
Diedi a Rex un pezzetto di formaggio e gli spiegai che sarei rientrata nel giro di un paio d’ore. Fuori, nel parcheggio, cercai la mia Honda Chic e poi mi ricordai che era andata arrosto. Poi cercai la Macchina del Vento, sbagliando di nuovo. Finalmente, con un sospiro di sconforto, adocchiai la Buick.
Fenwood Street era graziosa di notte. Le finestre delle case illuminate e i lampioni lungo la strada punteggiavano i sentierini che conducevano alle abitazioni. Non c’era nessuno per la strada.
La casa di Hannibal Ramos aveva ancora le tende tirate, ma la luce filtrava da dietro le finestre. Feci un giro dell’isolato e parcheggiai la Buick proprio vicino alla pista ciclabile che avevo percorso quella mattina.
Feci un po’ di esercizi di stretching e qualche minuto di corsa sul posto nel caso qualcuno mi stesse osservando, domandandomi se avessi un’aria sospetta. Cominciai a correre a passo lento e subito raggiunsi il sentiero che si snodava attraverso il terreno comune dietro le case. Qui c’era meno luce, filtrata dagli alberi. Aspettai che i miei occhi si adattassero all’oscurità. Tutte le staccionate delle proprietà avevano una porticina sul retro e con attenzione feci l’intero percorso contando le porte, fino a ritrovarmi dietro quella che ritenevo essere la casa di Hannibal. Le finestre del piano superiore erano buie, ma sulla recinzione si proiettava la luce di quelle al piano terra sul retro della casa.
Provai ad aprire la porticina sul retro. Chiusa. La recinzione di mattoni era alta più di due metri. I mattoni lisci e impossibili da scalare: non c’era presa per le mani né per i piedi. Mi guardai attorno in cerca di qualcosa su cui arrampicarmi. Niente.
Adocchiai l’albero di pino che cresceva accanto alla recinzione la quale, facendo pressione su alcuni dei rami più bassi, lo aveva leggermente deformato. I rami più alti si allungavano sul cortile interno: se avessi potuto arrampicarmi, mi avrebbero offerto riparo e avrei potuto spiare Hannibal. Afferrai uno dei rami più bassi e mi sollevai. Arrancai fin quasi a un metro di altezza e fui ricompensata dalla vista del cortile posteriore della casa di Hannibal. La recinzione era bordata con aiuole di fiori ricoperte di pacciame. Una veranda in muratura di forma irregolare proteggeva le entrate sul retro della casa e il resto del cortile era a prato.
Proprio come sospettavo, le tende nella parte posteriore della casa non erano tirate e da una doppia finestra si riusciva a vedere dentro la cucina. Le porte che davano sulla veranda conducevano a un soggiorno, oltre il quale era visibile una piccola porzione di un’altra stanza: probabilmente il salotto, ma era difficile dirlo con certezza. Non vedevo nessuno in giro.
Rimasi lì a sedere per un po’, osservando, ma non accadde nulla. Tutto era immobile nella casa di Hannibal. E anche nelle case dei suoi vicini. Molto noioso. Nessuno sulla pista ciclabile. Nessuno che portasse a spasso il cane. Nessuno che andasse a fare jogging. Troppo buio. È questo che mi piace degli appostamenti. Non succede mai niente. Poi devi andare al bagno e ti perdi un duplice omicidio.
Dopo un’ora avevo il sedere addormentato e le gambe indolenzite per l’immobilità. Può bastare, pensai. Non sapevo che cosa avrei dovuto cercare, comunque.
Mi voltai per ridiscendere, persi l’equilibrio e caddi rovinosamente al suolo. Sdraiata sulla schiena. Nel cortile di Hannibal.
La luce della veranda si accese e Hannibal uscì e mi guardò. «Che diavolo succede?» domandò.
Provai ad articolare le dita e a muovere le gambe. Tutto sembrava ancora funzionante.
Hannibal mi venne vicino, le mani sui fianchi, scrutandomi come se aspettasse una spiegazione.
«Sono caduta dall’albero» dissi. Piuttosto ovvio, visto che c’erano aghi di pino e ramoscelli sparsi tutto intorno a me.
Hannibal non mosse un muscolo.
Faticosamente mi alzai in piedi. «Stavo cercando di far scendere il mio gatto. È sull’albero da questo pomeriggio.»
Lui alzò lo sguardo sull’albero. «È ancora lassù, il gatto?» Sembrava che non credesse a una sola parola.
«Penso che sia saltato giù quando sono caduta.»
Hannibal Ramos aveva il colorito tipico della California e la mollezza del pantofolaio teledipendente. Avevo visto alcune sue foto, perciò la cosa non mi stupì; quello che non mi aspettavo era l’espressione devastata sul suo viso, ma tutto sommato aveva appena perso un fratello e doveva essere stato un duro colpo. I capelli castani erano sottili e tendenti a diradare, un paio di occhiali con la montatura di tartaruga gli nascondeva gli occhi. Indossava un completo grigio che aveva un gran bisogno di essere stirato e una camicia bianca con il colletto aperto, anch’essa spiegazzata: un qualunque uomo d’affari dopo una dura giornata in ufficio. Doveva aver superato da poco i quaranta e da un paio d’anni un intervento di by-pass quadruplo.
«E immagino che sia scappato via?» disse Ramos.
«Oddio, spero di no. Sono stufa di dargli la caccia.» Sono una grande bugiarda. A volte mi stupisco di me stessa.
Hannibal aprì la porta della recinzione e diede un’occhiata veloce alla pista ciclabile. «Cattive notizie. Non vedo gatti.»
Guardai oltre la spalla di Hannibal. «Qui, micio, micio» chiamai. Mi sentivo abbastanza stupida ora, ma non c’era altro da fare che andare avanti.
«Sa che cosa penso?» disse Hannibal. «Penso che non ci sia nessun gatto. Penso che lei fosse su quell’albero a spiarmi.»
Gli lanciai un’occhiata di assoluta incredulità, del tipo: Oh, davvero? «Senta» dissi, girandogli attorno precipitosamente in direzione dell’uscita. «Devo andare. Devo trovare il gatto.»
«Di che colore è?»
«Nero.»
«Buona fortuna.»
Guardai sotto un paio di cespugli lungo il bordo della pista ciclabile. «Qui, micio, micio.»
«Forse dovrebbe lasciarmi il suo nome e il numero di telefono, nel caso io lo trovi» disse Hannibal.
I nostri occhi si incrociarono per un breve istante, e il cuore mi fece un tuffo nel petto.
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