Janet Evanovich - Bastardo numero uno

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A corto di soldi, Stephanie Plum rimedia un lavoro, nella società di assicurazioni del cugino, come “cacciatrice di teste”, con il compito di consegnare alla polizia tutti gli arrestati rilasciati su cauzione che non si sono presentati in tribunale per il processo. Il suo primo caso è però quello di un agente di polizia ingiustamente accusato di omicidio, un ex compagno di liceo di Stephanie, al cui Anche pubblicato come “Tutto per denaro”.

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Janet Evanovich

Bastardo numero uno

Questo libro è dedicato a mio marito, Peter, con affetto.

Ringraziamenti

L’autrice desidera ringraziare per la loro inestimabile collaborazione le seguenti persone: il sergente Walter Kerstein, dipartimento di polizia di Trenton; il sergente Robert Szejner, dipartimento di polizia di Trenton; Leanne Banks; Courtney Henke; Kurt Henke; Margaret Dear; Elizabeth Brossy; Richard Anderson, poligono di Gilbert — esercitazioni con armi portatili; David Daily, dipartimento di polizia della Contea di Fairfax e Roger White.

Un ringraziamento particolare al mio agente, Aalon Priestja Frances Jalet-Miller e al mio direttore editoriale, Susannc Kirk e alla sua assistente Gillian Blake.

1

Ci sono degli uomini che entrano nella vita di una donna e la incasinano per sempre. Joseph Morelli ha sconvolto la mia vita… ma non per sempre, solo in certi periodi.

Morelli e io siamo entrambi nati e cresciuti in un quartiere operaio di Trenton che la gente conosceva come «la cittadella». Case strette, addossate le une alle altre, cortili angusti e auto americane. Gli abitanti erano per lo più di origine italiana, ma anche ungheresi e tedeschi erano abbastanza numerosi e questo favoriva i matrimoni misti. Era un buon posto per comprare un calzone o giocare d’azzardo. Se proprio eri, in ogni modo, costretto a vivere a Trenton, questo era un posto okay per mettere su famiglia.

Da bambina di solito non giocavo con Joseph Morelli. Lui abitava a due isolati di distanza e aveva due anni più di me. «Sta’ lontana dai ragazzi Morelli», mi ammoniva sempre mia madre. «Sono dei selvaggi. Ne ho sentite di cotte e di crude su quello che fanno alle ragazzine quando le trovano da sole.»

«Quali cose?» avevo chiesto curiosa.

«Non occorre che tu lo sappia», aveva tagliato corto mia madre. «Cose terribili.»

Da allora, avevo guardato Joseph Morelli con un misto di terrore e di pruriginoso interesse: nutrivo per lui una sorta di timore reverenziale. Avevo sei anni quando, con le gambe tremanti e lo stomaco contratto, seguii Morelli nel garage di suo padre, allettata dalla promessa che mi avrebbe insegnato un nuovo gioco.

Il garage dei Morelli sorgeva seminascosto, isolato e abbandonato ai margini del loro terreno. Offriva uno spettacolo desolante, illuminato com’era solo dalla luce che filtrava da una finestra incrostata di sudiciume. L’aria all’interno era stagnante e sapeva di muffa, puzzava di vecchi copertoni e di lubrificante usato. Non essendo destinato ad accogliere le auto dei Morelli, veniva utilizzato per altri scopi. Il vecchio Morelli se ne serviva per prendere i figli a cinghiate, e i figli per le loro scazzottate. Joseph Morelli ci portò la sottoscritta, Stephanie Plum. Per giocare al treno.

«Come si chiama questo gioco?» avevo chiesto a Joseph Morelli.

«Si chiama tuuu-tuuu», aveva risposto lui mettendosi carponi per strisciare fra le mie gambe, con la testa sotto la mia gonna rosa. «Tu sei la galleria, io il treno.»

Questo vi aiuterà a comprendere la mia personalità: non sono particolarmente brava a seguire i buoni consigli, o forse sono troppo curiosa. Magari è qualcosa che ha a che vedere con il mio carattere ribelle, con la noia, il destino, chissà. A ogni modo, si trattò di un’esperienza occasionale e per di più maledettamente deludente: mi aveva permesso di fare la galleria, mentre in realtà avrei voluto fare il treno.

Dieci anni dopo, Joe Morelli abitava ancora a distanza di due isolati. Era cresciuto grande, grosso e cattivo; una luce sinistra gli brillava negli occhi, che però, un minuto dopo, si scioglievano in uno sguardo tenero come un cioccolatino. Aveva un’aquila tatuata sul petto, il sedere sodo, i fianchi stretti e un’andatura da bullo. Si era fatto la fama d’essere lesto di mano e di possedere dita esperte.

La mia migliore amica, Mary Lou Molnar, mi aveva riferito di aver sentito dire che Morelli aveva una lingua come quella di una lucertola.

«Santo cielo!» era stato il mio commento. «Che cosa vorrebbe dire?»

«Non permettergli di avvicinarti quando sei sola, o lo scoprirai da te. Se ti abborda quando sei da sola… sei sistemata.»

Non avevo avuto modo di vedere spesso Morelli dall’episodio del treno. Immaginavo che avesse arricchito il suo repertorio di prodezze sessuali. Spalancai gli occhi e mi chinai verso Mary Lou, augurandomi il peggio. «Non starai parlando di stupro, eh?»

«Sto parlando di libidine. Se lui ti vuole, non hai scampo. Non gli si può resistere.»

A parte il fatto di essere palpata all’età di sei anni da chi sapete, ero illibata. Mi conservavo per il matrimonio, o almeno per il college. «Sono vergine», dissi, come se fosse una novità. «Sono sicura che non si mette con le vergini.»

«Sono la sua specialità. Il tocco vellutato delle sue dita fa sciogliere le vergini.»

Due settimane più tardi, Joe Morelli entrò da Tasty Pastry , la pasticceria dove lavoravo ogni giorno dopo la scuola, la Tasty Pastry a Hamilton. Comprò un cannolo al cioccolato, mi disse di essersi arruolato in marina e mi sfilò le mutandine come per magia quattro minuti dopo la chiusura, sul pavimento della pasticceria, dietro la vetrina dei bignè al cioccolato.

Lo rividi soltanto tre anni dopo. Mi dirigevo verso il centro commerciale a bordo della Buick di mio padre, quando notai Morelli in piedi davanti al Giovichinni’s Meat Market. Pigiai sull’acceleratore, saltai il marciapiede e lo investii da dietro, facendolo rimbalzare contro il paraurti anteriore destro. Fermai la macchina e scesi per constatare i danni. «Qualcosa di rotto?»

Lui era a gambe all’aria sul marciapiede e guardava in su verso la mia gonna. «La gamba.»

«Bene», approvai soddisfatta. Poi girai sui tacchi, risalii sulla Buick e proseguii per la mia strada.

Attribuisco l’incidente a un momento di pazzia, e a mia difesa tengo a precisare che da allora non ho più investito nessuno.

Durante i mesi invernali il vento spazzava Hamilton Avenue, gemeva davanti alle vetrine sbattendo i rifiuti contro i marciapiedi e le facciate dei negozi. Durante i mesi estivi, l’aria era immobile e opprimente, carica di umidità e satura di idrocarburi. La grande calura faceva luccicare il cemento arroventato e scioglieva l’asfalto delle strade. Le cicale frinivano, i cassonetti esalavano un tanfo pestilenziale, una bassa caligine incombeva sui campi di softball in tutto lo stato. Credo che tutto questo facesse parte della grande avventura di vivere nel New Jersey.

Quel pomeriggio, avevo deciso d’infischiarmene dell’aumento estivo del tasso di ozono, che mi prendeva alla gola, e di andarmene in giro sulla mia Mazda Miata con la capote abbassata. Il climatizzatore funzionava al massimo, cantavo con Paul Simon. I miei capelli castani lunghi fino alle spalle, scompigliati e arruffati, mi sferzavano il viso freneticamente; i miei occhi azzurri, sempre vigili, erano nascosti dietro un paio di Oakley e il mio piede era incollato sull’acceleratore.

Era domenica e avevo un appuntamento con un delizioso arrosto a casa dei miei genitori. Mi fermai a un semaforo e guardai nello specchietto retrovisore, imprecando fra i denti quando vidi Lenny Gruber su una Sedan rossiccia, due auto dietro la mia. Abbassai la testa sul volante. «Maledizione.» Ero indietro con i pagamenti della Miata e Gruber lavorava per una compagnia specializzata nel recupero crediti.

Sei mesi prima, quando avevo comperato la macchina, me la passavo bene, con un bell’appartamento e l’abbonamento alle partite dei Rangers. E poi bam! Mi ero ritrovata senza un soldo e senza carta di credito.

Tornai a guardare nello specchietto e tirai il freno a mano. Lenny era come il fumo: se cercavi di afferrarlo, svaniva: perciò non volevo perdere quest’ultima occasione per patteggiare. Scesi dalla macchina, mi scusai con l’uomo intrappolato fra le nostre auto e mi diressi verso Gruber.

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