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Janet Evanovich: Bastardo numero uno

Здесь есть возможность читать онлайн «Janet Evanovich: Bastardo numero uno» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Milano, год выпуска: 1997, ISBN: 88-2002-353-9, издательство: Sperling & Kupfer, категория: Иронический детектив / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Janet Evanovich Bastardo numero uno

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A corto di soldi, Stephanie Plum rimedia un lavoro, nella società di assicurazioni del cugino, come “cacciatrice di teste”, con il compito di consegnare alla polizia tutti gli arrestati rilasciati su cauzione che non si sono presentati in tribunale per il processo. Il suo primo caso è però quello di un agente di polizia ingiustamente accusato di omicidio, un ex compagno di liceo di Stephanie, al cui Anche pubblicato come “Tutto per denaro”.

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Mi avviai verso la macchina cercando di pensare alla mossa successiva. Nessun segno di vita negli edifici: niente televisori a tutto volume dalle finestre aperte, niente bambini in bicicletta, niente cani in giro per il prato. Non era certo un luogo che potesse attirare le famiglie, pensai, un posto in cui i vicini si conoscessero tra di loro.

Un’auto sportiva entrò nel parcheggio, fece un largo giro e andò a fermarsi in uno degli spazi liberi. Il conducente rimase seduto al volante per un po’; mi chiesi se aspettasse qualcuno. Non avevo niente di meglio da fare e rimasi a guardare che cosa sarebbe successo. Dopo cinque minuti la portiera dalla parte del guidatore si aprì, un uomo scese e si avviò verso il portico vicino a quello di Morelli.

Non potevo credere ai miei occhi. Era il cugino di Joe, Mooch Morelli, lo «scroccone». Non riuscivo a ricordare il suo vero nome di battesimo: per quel che ne sapevo, era sempre stato chiamato Mooch. Da bambino abitava in una via vicino al St. Francis Hospital. Era sempre in giro con Joe. Incrociai le dita e mi augurai che il vecchio Mooch andasse a ritirare qualcosa che Joe aveva lasciato da un vicino. Oppure che in quello stesso momento stesse forzando una finestra dell’appartamento di Joe. Ero tutta eccitata all’idea che Mooch commettesse l’infrazione, quando lui sbucò da dietro l’edificio. Chiavi in mano, entrò dalla porta di Joe.

Aspettai, e dopo dieci minuti Mooch riapparve con una sacca da viaggio nera, salì in macchina e se ne andò. Lasciai che uscisse dal parcheggio e lo seguii. Mi tenni alla distanza di due auto, guidavo con le dita strette sul volante, con il cuore che mi martellava, stordita dall’idea di incassare diecimila dollari.

Tallonai Mooch fino a State Street finché entrò in un viale privato. Feci il giro dell’isolato e parcheggiai a una certa distanza. Un tempo quella era una zona elegante: grandi case di solida pietra, prati ampi e ben tenuti. Negli anni Sessanta, quando i liberal favorivano l’insediamento dei neri nelle zone abitate dai bianchi, uno dei proprietari aveva venduto la casa a una famiglia di colore. Nel corso dei cinque anni successivi, l’intera popolazione bianca, presa dal panico, era fuggita in massa. Arrivarono famiglie più povere, le case si degradarono e vennero divise in lotti, i prati furono abbandonati al loro destino e vennero apposte sbarre alle finestre. Ma, come spesso accade quando c’è penuria di abitazioni, ora stavano iniziando a ristrutturare il quartiere.

Mooch uscì dalla casa dopo pochi minuti. Era solo e senza la borsa. Dio. Una traccia. Quante erano le possibilità che Joe Morelli fosse in quella casa con la borsa sulle ginocchia? Valeva la pena di controllare. Mi si presentavano due alternative. Potevo chiamare subito la polizia o indagare per conto mio. Se chiamavo la polizia e Morelli non era là dentro, avrei fatto la figura della scema, e magari gli agenti non sarebbero stati disposti a correre in mio aiuto una seconda volta. D’altra parte, non me la sentivo di investigare da sola. Non era certo l’atteggiamento di una che aveva appena accettato l’incarico di scovare un latitante, ma era così.

Fissai a lungo la casa, sperando che Morelli uscisse e che non fossi costretta a entrare. Guardai l’orologio e pensai al cibo. Avevo bevuto una bottiglia di birra per colazione. Tornai a fissare la casa.

Se fossi riuscita ad arrivare fino in fondo, forse avrei trovato una miniera d’oro, avrei potuto scialacquare gli spiccioli sul fondo della mia borsetta investendoli in un hamburger. L’idea mi dava la carica.

Alla fine inspirai profondamente, aprii la portiera e scesi dall’auto. Fallo e basta, ragionai. Non trasformare in un affare di stato una mossa tanto semplice. Probabilmente lui non è neppure in casa.

Mi avviai decisa sul marciapiede, parlando fra me mentre camminavo. Raggiunsi la casa ed entrai senza esitare. Le cassette della posta nel vestibolo indicavano che c’erano otto appartamenti. Tutte le porte si aprivano su una scala comune. Le cassette delle lettere avevano il nome del proprietario, a eccezione del 201. Il nome di Morelli non compariva.

In mancanza di un piano migliore, decisi di provare con la porta misteriosa. L’adrenalina fluiva abbondante nel mio sangue quando mi girai verso la scala. Arrivai sul pianerottolo del secondo piano con il cuore che batteva impazzito. La paura di entrare in scena, pensai, è del tutto nonnaie. Tirai il fiato. Quasi senza rendermene conto riuscii ad avvicinarmi alla porta. La mia mano bussò.

Sentii movimento dietro l’uscio. Dentro c’era qualcuno, mi guardava dallo spioncino. Morelli? Ne ero sicura. I polmoni mi si riempirono d’aria, la gola mi pulsava dolorosamente. Perché facevo tutto questo? Io lavoravo nel campo della biancheria intima, che cosa ne sapevo della cattura degli assassini?

Non pensare a lui come a un assassino, ragionai. Pensa a lui come a un farabutto, al macho che ti ha traviata e che poi ha immortalato i particolari della sua bravata sul muro dei gabinetti del Mario’s Sub Shop.

Mi morsi il labbro e indirizzai un sorriso accattivante alla persona dietro lo spioncino, dicendomi che nessun macho poteva resistere a tanta ingenua stupidità.

Trascorse un altro momento, e quasi mi parve di sentirlo imprecare silenziosamente, mentre si chiedeva se doveva aprire. Agitai un dito davanti allo spioncino. Un gesto distensivo, per niente minaccioso. Volevo fargli capire che al di là della porta c’era solo una ragazza ben carrozzata, che sapevo che era in casa.

Sfilò il chiavistello, spalancò la porta e mi ritrovai faccia a faccia con Morelli.

Aveva un atteggiamento passivo e aggressivo a un tempo, la voce impaziente. «Che cosa c’è?»

Appariva più robusto di quanto mi ricordassi. Più rabbioso. Lo sguardo era più assente, la linea della bocca s’era fatta più cinica. Ero venuta a cercare un ragazzo che poteva aver ucciso in un accesso d’ira, ma l’uomo che mi stava di fronte era capace di uccidere con distacco professionale.

Mi concessi un attimo per rendere ferma la voce e per formulare la bugia: «Sto cercando Joe Juniak…»

«Ha sbagliato appartamento. Non c’è nessun Juniak, qui.»

Finsi di essere confusa e mi costrinsi a rivolgergli un sorriso tirato. «Mi scusi…» Mossi un passo indietro e stavo per ridiscendere la scala quando Morelli mi riconobbe.

«Gesù Cristo!» esclamò. «Stephanie Plum?»

Il tono della voce mi era familiare. Era lo stesso che usava mio padre quando trovava il cane degli Smullen che alzava la gamba sul suo cespuglio di ortensie. Benissimo, conclusi. Fra noi non c’è mai stato né amore né amicizia. Questo mi facilitava il compito.

«Joseph Morelli. Che sorpresa!» dissi.

Lui socchiuse gli occhi. «Già. La stessa sorpresa di quando mi hai investito con l’auto di tuo padre.»

Per evitare uno scontro, mi sentii in dovere di dare delle spiegazioni pur non sentendomi obbligata a essere convincente. «È stato un incidente. Mi è scivolato il piede.»

«Incidente un corno. Sei saltata sul marciapiede e mi sei venuta dietro. Potevi ammazzarmi.» Si appoggiò alla porta e guardò nel corridoio. «Insomma, che cosa ci fai qui veramente? Hai letto di me sui giornali e hai deciso che la mia vita non era abbastanza complicata?»

M’investì un’ondata di risentimento. «Me ne sbatto della tua vita», sbottai. «Lavoro per mio cugino Vinnie. Hai violato l’accordo sulla cauzione.»

Brava, Stephanie. Ottimo controllo.

Lui sogghignò. «Vinnie ha mandato te per portarmi dentro?»

«Lo trovi divertente?»

«Sicuro. E ti confesso che di questi giorni ho proprio bisogno di scherzare un po’, non mi è capitato spesso di ridere, ultimamente.»

Capivo il suo punto di vista, neppure a me veniva da ridere se ripensavo ai miei ultimi vent’anni di vita. «Dobbiamo parlare.»

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