Janet Evanovich
Cacciatrice di taglie
Grazie a Eileen Hoffman e a Larry Martine per avermi suggerito il titolo di questo libro.
Bene, ecco come stanno le cose, allora. Il peggior terrore di mia madre è diventato realtà. Sono una ninfomane. Provo desiderio per molti uomini. In effetti potrebbe semplicemente dipendere dal fatto che non faccio sesso proprio con nessuno. Ed è probabile che parecchi dei miei desideri non avranno mai un seguito. Forse è poco realistico credere che possa mai capitarmi una storia con Mike Richter, il cannoniere dei New York Rangers. Lo stesso si può dire per Indiana Jones.
D’altro canto, due degli uomini nella mia lista di desideri in realtà mi desiderano a loro volta. Il problema è che entrambi sembrano anche spaventati a.morte da me.
Mi chiamo Stephanie Plum, sono una cacciatrice di latitanti e lavoro con quei due uomini. Entrambi hanno a che fare con le forze dell’ordine. Uno è un poliziotto. L’altro previene il crimine con un approccio più imprenditoriale. Nessuno dei due ha una particolare inclinazione ad agire secondo le regole. Ed entrambi mi superano di parecchio in quanto a esperienze erotiche.
Tuttavia arriva il giorno in cui una ragazza deve necessariamente prendere il toro per le corna (o per qualsiasi altra parte del corpo che faccia allo scopo) e assumersi la responsabilità della propria vita. Ed è esattamente quello che ho fatto io. Ho telefonato e ho invitato uno dei due spaventati signori a venirmi a trovare.
Ora sto cercando di decidere se farlo entrare.
La mia paura è che questa finisca per essere un’esperienza simile a quella vissuta a nove anni quando, fantasticando di essere Wonder Woman, mi sono lasciata prendere la mano e sono precipitata dal tetto del garage dei Rruzak, ho distrutto il cespuglio di rose da concorso della signora Kruzak, mi sono strappata i calzoncini e le mutandine di cotone a fiori, e ho trascorso il resto della giornata senza rendermi conto che avevo il sedere di fuori.
Mentalmente alzo gli occhi al cielo, esasperata. Datti una mossa. Non c’è motivo di essere nervosa. Questa è la volontà di Dio. Dopo tutto, non ho forse estratto a sorte quel nome da un cappello, questa sera? Be’, per la verità era una ciotola, ma in ogni caso si tratta di una coincidenza cosmica. Va bene, a essere sincera ho barato un po’, e ho sbirciato quando ho estratto il nome. Diamine, a volte il destino ha bisogno di una spinta. Voglio dire: se mi fossi semplicemente affidata al fato, non sarei stata costretta a fare quella stupida telefonata, no?
Inoltre ho anche qualche altro trucco da parte, sono attrezzata per l’occasione: abito corto e nero da mangiatrice di uomini, scarpe col tacco allacciate alla caviglia, rossetto vermiglio e lucido, una scatola di preservativi nel cassetto dei maglioni, una pistola carica pronta all’uso nel vaso dei biscotti. Stephanie Plum, una donna in missione: catturarlo vivo o morto.
Un momento prima avevo sentito aprirsi le porte scorrevoli dell’ascensore, e poi dei passi nel corridoio. I passi si erano fermati davanti alla porta del mio appartamento, e avevo capito che era lui perché mi si erano contratti i capezzoli.
Aveva bussato una volta, e io ero rimasta paralizzata a fissare la serratura. Avevo aperto la porta al secondo richiamo facendo poi un passo indietro; i nostri sguardi si erano incrociati. Lui non dava il minimo segno del nervosismo che provavo io. Curiosità, forse. E desiderio. Molto desiderio. Desiderio a palate.
«Ciao» dissi.
Lui entrò nell’ingresso e chiuse la porta a chiave. Aveva il respiro lento e profondo, gli occhi scuri e l’espressione seria, e mi stava studiando.
«Bel vestito» disse. «Toglilo.»
«Magari un goccio di vino, prima» replicai. Prendi tempo!, pensavo. Fallo ubriacare! Dopo di che, se sarà un disastro forse non se lo ricorderà.
Lui scosse piano la testa. «Direi di no.»
«Un panino?»
«Dopo. Molto dopo.»
Mentalmente mi feci scrocchiare le dita, tesa.
Lui sorrise. «Sei carina quando sei nervosa.»
Strabuzzai gli occhi. Essere carina non era stato esattamente il mio obiettivo quando avevo organizzato la serata e fantasticato sulle prospettive.
Lui mi tirò a sé, allungando la mano dietro la schiena per slacciarmi la cerniera lampo. Il vestito cadde dalle spalle e si afflosciò ai miei piedi, lasciandomi con solo quelle scarpe sfacciate e un tanga Victoria’s Secret così sottile da essere quasi inesistente.
Sono alta quasi un metro e settanta, e i tacchi aggiungono altri dieci centimetri, ma lui mi supera ugualmente di un paio di dita. È anche molto più muscoloso.
Fece scorrere le mani delicatamente lungo la mia schiena e mi osservò.
«Carina» disse.
L’aveva già vista altre volte, naturalmente. Aveva infilato la testa sotto la mia gonna quando avevo sette anni. Mi aveva liberata della verginità a diciotto. E, in tempi più recenti, mi aveva fatto cose che non avrei dimenticato tanto in fretta. È un poliziotto di Trenton e si chiama Joe Monelli.
«Ti ricordi quando da bambini giocavamo al trenino?» domandò.
«Io facevo sempre il tunnel, e tu sempre il treno.»
Lui arpionò con i pollici l’elastico del mio slip e lo fece scivolare giù lentamente.
«Ero un ragazzino depravato» disse.
«Vero.»
«Ora sono migliore.»
«A volte.»
Questo mi fece guadagnare un sorriso pieno di lussuria. «Dolcezza, non dubitarne mai.»
Poi mi baciò, e il mio slip scivolò a terra. Oh, mio Dio. Oh, mio Dio!
Cinque mesi dopo…
Carol Zabo stava sul guardrail esterno del ponte sul fiume Delaware, che collega Trenton nel New Jersey con Morrisville in Pennsylvania. Reggeva nel palmo della mano destra un grosso mattone di materiale refrattario, legato alla caviglia con una corda da bucato lunga poco più di un metro. Sul lato del ponte era scritto a grandi lettere lo slogan TRENTON FA E IL MONDO PRENDE. A quanto pareva, Carol era stanca di vedersi prendere dal mondo ciò che lei faceva, qualunque cosa fosse, sicché si preparava a buttarsi nel Delaware lasciando che il mattone facesse il suo dovere.
Io mi trovavo a circa tre metri da Carol e, parlandole, cercavo di convincerla ad allontanarsi dal guardrail. Gli automobilisti ci passavano accanto, alcuni rallentavano per curiosare, imbambolati, altri si facevano strada sfrecciando a destra e sinistra tra i ficcanaso e rivolgevano a Carol gesti osceni perché disturbava il traffico.
«Ascolta, Carol» dissi «sono le otto e mezzo del mattino e comincia a nevicare. Mi si sta congelando il culo. Deciditi a buttarti perché mi scappa la pipì e ho bisogno di un caffè.»
Per la verità non credetti nemmeno per un minuto che si sarebbe buttata. Tanto per cominciare, indossava una giacca da quattrocento dollari. Non era possibile, la giacca si sarebbe rovinata. Carol veniva dal quartiere di Chambersburg, a Trenton, proprio come me, e lì la gente prima passa la giacca alla sorella e dopo si butta dal ponte.
«Ascoltami tu, Stephanie Plum» disse Carol battendo i denti. «Nessuno ti ha invitata a questa festa.»
Carol e io eravamo andate a scuola insieme. Lei faceva la capo-majorette e io roteavo il bastone. Ora lei era sposata con Lubie Zabo e voleva suicidarsi. Se fossi stata sposata con Lubie, anch’io avrei voluto suicidarmi, ma non era quello il motivo per cui Carol se ne stava sul guardrail con un mattone legato a una corda da bucato. Aveva rubato alcuni slip sexy nei grandi magazzini Frederick’s of Hollywood, sul corso principale. Non che Carol non potesse permettersi le mutandine: voleva solo mettere un po’ di pepe nella sua vita sessuale, ma era troppo imbarazzata per portarle alla cassa. Nella fretta di scappare aveva tamponato l’auto del poliziotto in borghese Brian Simon, ed era fuggita senza fermarsi. In quel momento Brian si trovava in macchina e l’aveva inseguita e sbattuta in gattabuia.
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