Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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E invece non l’aveva fatto.

Sì, c’era qualcosa che non andava.

Denise non voleva insospettirla e al termine della visita era uscita in fretta. Una volta in strada, inforcò gli occhiali da sole e cercò di individuare eventuali camionette della polizia o autocivetta, ma non notò né le une né le altre. Non era un’esperta, ovviamente, ma lavorava da quasi dieci anni con Steven Bacard e non c’era mai stata la minima complicazione. Per questo forse aveva abbassato la guardia.

Appena rientrata in macchina stava per prendere il cellulare e avvertire Bacard, ma si trattenne. Se la tenevano d’occhio avrebbero intercettato la telefonata. Pensò allora di usare un telefono pubblico alla stazione di servizio più vicina, ma la polizia avrebbe previsto anche una mossa del genere. Quando vide l’insegna dell’autogrill, si ricordò di avere notato una lunga fila di telefoni l’ultima volta che si era fermata. Avrebbe potuto chiamare da lì, se fosse stata abbastanza veloce non l’avrebbero vista e non avrebbero quindi saputo da quale telefono aveva chiamato.

E se invece fosse stato un errore?

Passò velocemente in rassegna le varie possibilità. Se effettivamente la stavano pedinando, andare in ufficio da Bacard sarebbe stata una pazzia: meglio aspettare e chiamarlo da casa. Ma potevano averle messo il telefono sotto controllo e quindi chiamare da uno dei tanti telefoni dell’autogrill le apparve la soluzione meno rischiosa.

Prese un tovagliolino di carta e se ne servì per non lasciare impronte digitali sulla cornetta. E fece attenzione a non pulire le impronte già esistenti: perché semplificare loro il lavoro?

«Pronto?» rispose Steven Bacard.

Provò un tuffo al cuore nel sentire l’evidente tensione nella voce di lui. «Dov’è Pavel?» gli chiese.

«Denise?»

«Sì.»

«Perché me lo chiedi?»

«Ho appena visitato la sua ragazza, c’è qualcosa che non va.»

«Oh Dio» gemette Bacard. «Che cos’è successo?»

«La ragazza ha telefonato al numero che le avevamo dato per le emergenze, dicendo che perdeva sangue. Ma credo che stesse mentendo.»

Silenzio.

«Steven?»

«Vai a casa, non parlare con nessuno.»

«Okay.» Denise vide fermarsi la Camaro bianca e si rabbuiò: le sembrò di averla vista poco prima.

«Tieni in casa un archivio?» le chiese Bacard.

«No, naturalmente.»

«Sicura?»

«Sicurissima.»

«Okay, bene.»

Dalla Camaro stava scendendo una donna e, anche da quella distanza, si notava che aveva un orecchio fasciato.

«Vai a casa» le disse Bacard.

Prima che la donna potesse voltarsi, Denise riagganciò e s’infilò nella toilette.

Da ragazzo Steven Bacard andava matto per la vecchia serie televisiva di Batman. Ogni episodio, ricordava, aveva inizio più o meno allo stesso modo. Veniva commesso un gravissimo reato, gli agenti informavano immediatamente l’assessore Gordon e il capo della polizia O’Hara e quei due pagliacci assumevano un’espressione cupa. Poi esaminavano insieme la situazione, per rendersi conto che esisteva soltanto una soluzione. A quel punto l’assessore Gordon sollevava la cornetta del Bat-telefono rosso, Batman rispondeva, prometteva loro di risolvere il caso e infine si voltava verso Robin e gli diceva: “Alla Bat-mobile!”.

Rimase a guardare il telefono avvertendo una sgradevole sensazione nello stomaco. Non era un eroe quello che si accingeva a chiamare, anzi esattamente il contrario. Ma alla fine ciò che contava era sopravvivere, le belle parole e le giustificazioni andavano bene in tempo di pace. In tempo di guerra, nei casi di vita o di morte, era più semplice: noi o loro. Sollevò la cornetta e compose il numero.

Lydia rispose con la consueta dolcezza. «Salve, Steven.»

«Ho ancora bisogno di voi.»

«Sei nei guai?»

«Guai seri.»

«Arriviamo.»

39

«Quando sono arrivata lei era in bagno» disse Rachel. «Ma ho il sospetto che avesse appena fatto una telefonata.»

«Perché?»

«Perché in bagno c’era la fila e tra me e lei c’erano solo tre persone. Se fosse entrata subito nella toilette ce ne sarebbero state di più.»

«Possiamo sapere chi ha chiamato?»

«Non subito, tutti i telefoni erano occupati. Ci vorrebbe del tempo per scoprire dov’era diretta la sua telefonata, anche se avessi a disposizione tutte le attrezzature dell’FBI.»

«Allora continuiamo a pedinarla?»

«Sì.» Rachel si voltò verso Katarina. «Ci sono delle cartine stradali in macchina?»

Lei sorrise. «Moltissime, a Verne piacciono. Le vuoi di tutto il mondo, degli Stati Uniti, di questo stato?»

«Dello stato.»

Frugò nella tasca dietro il mio sedile e allungò a Rachel l’atlante stradale. Rachel tolse il cappuccio a una penna e prese a tracciare delle righe sulla cartina.

«Che cosa stai facendo?» le chiesi.

«Non lo so bene nemmeno io.»

Squillò il cellulare, risposi.

«Tutto bene?»

«Sì, Verne, stiamo tutti bene.»

«Ho fatto venire mia sorella per stare con i bambini, sono con il pick-up. Voi da che parte state andando?»

Gli spiegai che eravamo diretti a Ridgewood, lui conosceva la zona.

«Sono a una ventina di minuti da Ridgeway» disse. «Ci vediamo alla Ridgeway Coffee Company di Wilsey Square.»

«È probabile che noi stiamo andando a casa dell’ostetrica.»

«Vi aspetterò.»

«Okay.»

«Senti, Marc, non per fare il sentimentale, ma se c’è bisogno di qualcuno che spari…»

«Te lo farò sapere.»

La Lexus svoltò in Linwood Avenue e noi aumentammo la distanza. Rachel era sempre a capo chino, occupata con il palmare e la penna con cui continuava a fare segni sulla cartina. Arrivata in periferia, Denise Vanech svoltò a sinistra in Waltherly Road.

«Sta decisamente ritornando a casa» disse Rachel. «Lasciamola, bisogna studiare la situazione.»

Non riuscii a credere ciò che stava dicendo. «Come sarebbe a dire “studiare la situazione”? Dobbiamo affrontare quella donna.»

«Non ancora, sto lavorando a un piano.»

«Quale?»

«Dammi qualche altro minuto.»

Rallentai e girai a destra lungo la Van Dien, accanto al Valley Hospital. Mi voltai a guardare Katarina, che mi rivolse un timido sorriso. Rachel era ancora occupata a fare sa Dio che cosa. Guardai l’orologio sul cruscotto: era ora di andare all’appuntamento con Verne. Presi la North Maple fino a Ridgewood. Si liberò un posto davanti a un negozio che si chiamava Duxiana e io mi affrettai a parcheggiare. Dall’altra parte della strada vidi il pick-up di Verne, aveva ruote enormi e due adesivi sul paraurti. Su uno c’era scritto CHARLTON HESTON PRESIDENTE, mentre il messaggio dell’altro era più elaborato: SECONDO TE SOMIGLIO A UN’EMORROIDE? ALLORA NON MI STARE ATTACCATO AL CULO.

Il centro di Ridgeway era una via di mezzo tra la sontuosità da cartolina illustrata del primo Novecento e gli stravaganti empori alimentari di oggi. La maggior parte dei negozietti a conduzione familiare di un tempo erano scomparsi, ma le librerie private andavano ancora a gonfie vele. Vidi un’enorme rivendita di materassi, un bel negozio che vendeva paccottiglia degli anni Sessanta, un esercito di boutique, saloni di bellezza e gioiellerie. E naturalmente gran parte dello spazio se l’erano preso le grandi catene come Gap, Williams-Sonoma e l’immancabile Starbucks. Ma soprattutto notai come il centro si fosse trasformato in una vera e propria tavolozza di ristoranti e trattorie, un pot-pourri di mangiatoie per troppi gusti e troppe tasche. Si aveva l’impressione che ogni paese fosse rappresentato da un bistrot, che in qualsiasi direzione si fosse lanciato il proverbiale sasso si sarebbero colpiti tre di questi ristorantini economici.

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