Katarina andò al banco del motel, fingendo di conoscere solo il serbo, e prese a gesticolare fino a quando l’impiegato, per togliersela dai piedi, le diede il numero di stanza dell’unica persona nell’edificio che parlava quella lingua. Cominciava l’avventura.
Più che una normale stanza di motel, quella della ragazza incinta si sarebbe potuta definire uno scadente monolocale. Se parlo di “ragazza” incinta è perché Tatiana, almeno così aveva detto di chiamarsi, sosteneva di avere sedici anni: ma secondo me era ancora più giovane. Aveva gli occhi incavati di certe bambine che si vedono nei documentari di guerra, e con molta probabilità quello era proprio il suo caso.
Rimasi in disparte, quasi fuori dalla stanza, insieme a Rachel. Tatiana non parlava la nostra lingua e lasciammo quindi gestire la faccenda a Katarina. Le due donne parlarono per una decina di minuti, a cui seguì un breve silenzio. Poi Tatiana sospirò, aprì il cassetto sotto il telefono e diede un foglio di carta a Katarina, che la baciò su una guancia e tornò da noi.
«Ha paura» ci informò. «Conosceva solo Pavel, che ieri l’ha lasciata qui dicendole di non uscire per alcun motivo.»
Guardai Tatiana e le sorrisi per rassicurarla, certamente senza riuscirci.
«Che cos’ha detto?» le chiese Rachel.
«Non sa nulla, come non sapevo nulla io. Sa soltanto che il suo bambino vivrà in una bella casa.»
«Che cos’era quel pezzo di carta che le ha dato?»
Katarina me lo mostrò. «È un numero di telefono. Le hanno detto che in caso di emergenza deve chiamare questo numero, seguito da quattro 9.»
«Un cercapersone, quindi.»
«Sì, credo di sì.»
Guardai Rachel. «È possibile risalire all’intestatario?»
«Sì, ma dubito che potrà esserci utile. È facile farsi assegnare un cercapersone dando un nome falso.»
«Chiamiamolo, allora.» Mi rivolsi a Katarina. «Tatiana ha conosciuto qualcun altro oltre a suo fratello?»
«No.»
«Allora chiami lei spacciandosi per Tatiana, e dica a chi risponde che ha un’emorragia o sta male, che insomma ha bisogno di aiuto.»
«Calma, aspetta un attimo» intervenne Rachel.
«Dobbiamo far venire qui qualcuno.»
«E poi?»
«Come sarebbe a dire, e poi? Tu interroghi chi viene, non è il tuo mestiere, Rachel?»
«Non sono più un’agente federale. E anche se lo fossi non possiamo assalirli come proponi tu. Immagina per un attimo di essere uno di loro, che si trova all’improvviso ad avere a che fare con me. Tu come ti comporteresti, se fossi coinvolto in questa faccenda?»
«Cercherei un accordo.»
«Forse. Oppure potresti chiuderti a riccio e pretendere un avvocato. Sai che bel successo per noi.»
Ci pensai su. «Se chiede un avvocato, tu lo dai a me e me lo lavoro io.»
Rachel mi fissò. «Stai parlando seriamente?»
«C’è in ballo la vita di mia figlia.»
«Ora ci sono in ballo tanti bambini, Marc. Questa è gente che compra e vende bambini e dobbiamo metterla in condizione di non nuocere.»
«Tu allora che cosa consigli?»
«Chiamiamo quel numero, come dici tu, ma facciamo parlare Tatiana che dovrà convincerli a venire qui. Mentre quelli la visitano noi gli prendiamo il numero di targa e poi, quando se ne vanno, li seguiamo e scopriamo dove abitano.»
«Non capisco, non può farla Katarina questa telefonata?»
«No, perché chi verrà vorrà vedere la donna con cui ha parlato al telefono e Tatiana e Katarina hanno voci diverse.»
«Ma perché complicarci tanto la vita, se vengono qui. Perché rischiare di seguirli?»
Rachel chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Prova a pensarci, Marc, come reagiranno se scoprono che gli stiamo dando la caccia?»
Non risposi.
«E voglio mettere in chiaro anche un’altra cosa. Non si tratta più solo di Tara, questa gente va fermata.»
Capii il suo punto di vista. «E se invece affrontiamo qualcuno qui dentro li mettiamo sull’avviso.»
«Esatto.»
Non so quanto mi interessasse tutto il resto. La mia priorità si chiamava Tara e se l’FBI o la polizia volevano incastrare quella gente io non avevo nulla da obiettare. Ma il mio radar personale aveva un altro obiettivo da localizzare.
Katarina spiegò a Tatiana il nostro piano e capii che la ragazzina non ci stava, era impietrita, continuava a fare segno di no con la testa. Passò del tempo, e non potevamo permettercelo. Alla fine non riuscii più a trattenermi e decisi di fare una pazzia: presi il telefono, composi il numero del cercapersone e premetti quattro volte il numero 9. Tatiana si immobilizzò.
«Adesso tu parli» le dissi.
Katarina tradusse.
Nei due minuti successivi nessuno aprì bocca e tutti rimanemmo a guardare Tatiana. E quando il telefono squillò, ciò che vidi negli occhi della ragazzina non mi piacque. Katarina le disse qualcosa, parlando in fretta, ma quella scosse il capo e incrociò le braccia. Il telefono squillò una terza volta, poi una quarta.
Estrassi la pistola.
«Marc» disse Rachel.
Tenni la pistola puntata verso il basso. «Lo sa che stiamo parlando della vita di mia figlia?»
Katarina si mise a parlare affannosamente in serbo, io fissai torvo Tatiana, ma lei non ebbe alcuna reazione. Allora sollevai la pistola e sparai. La lampadina esplose e l’eco della detonazione riecheggiò nella stanza. Tutti sobbalzarono. Era stata, la mia, un’altra mossa stupida, lo sapevo. Ma non m’importava granché.
«Marc!»
Rachel mi mise una mano sul braccio, ma io l’allontanai e guardai Katarina. «Le dica che se quello riattacca…»
Non ebbi bisogno di terminare la frase, lei si mise di nuovo a parlare velocemente in serbo. La pistola adesso la tenevo ancora puntata verso il basso. Tatiana continuava a guardarmi. Avevo la fronte imperlata di sudore, tremavo. Il volto di Tatiana cominciò a distendersi mentre lei mi fissava.
«Per favore» dissi.
Al sesto squillo Tatiana sollevò il ricevitore e cominciò a parlare.
Lanciai un’occhiata a Katarina, che sempre ascoltando la conversazione mi fece un cenno d’assenso con il capo. Mi spostai all’altro lato della stanza, con la pistola in mano. Rachel mi guardò e io le restituii lo sguardo.
E fu lei a battere per prima le palpebre.
Fermammo la Camaro nel parcheggio di un ristorante nell’isolato successivo e attendemmo.
Nessuno parlava, ognuno di noi tre cercava se possibile di guardare da un’altra parte come fanno gli sconosciuti in ascensore. Non sapevo che cosa dire, non riuscivo a capire come mi sentivo. Avevo sparato un colpo di pistola, ed ero arrivato quasi al punto di minacciare una minorenne. E, quel che era peggio, non me ne fregava niente. Le conseguenze, ammesso che ve ne fossero, sembravano lontanissime, nuvole di tempesta che si accumulano per poi disperdersi.
Accesi la radio sintonizzandomi su una stazione locale. Mi aspettavo che da un momento all’altro interrompessero il notiziario per dare una notizia dell’ultima ora con i nostri nomi, i nostri identikit e le raccomandazioni agli ascoltatori di prestare la massima attenzione perché eravamo armati e pericolosi. Ma invece non si parlò di una sparatoria a Kasselton né di eventuali ricerche dei responsabili da parte della polizia.
Io e Rachel eravamo ancora seduti davanti, mentre Katarina si era sdraiata sul sedile posteriore. Rachel aveva estratto il palmare e teneva lo stilo puntato sullo schermo. Pensai di telefonare a Lenny, ma poi mi venne in mente ciò che mi aveva appena detto Zia riguardo al rischio di essere intercettato. E poi non avevo granché da dirgli, a parte il fatto di avere minacciato una sedicenne incinta con una pistola sottratta al cadavere di uno assassinato nel giardino di casa mia. L’avvocato Lenny non avrebbe sicuramente gradito questi particolari.
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