Ci guardò speranzosa. Io e Rachel ci scambiammo un’occhiata. Verne sorrideva ancora, ma teneva le spalle curve. Le lasciò la mano e crollò quasi sul divano.
Katarina si diresse verso la cucina. «Vuoi un’altra birra, Verne?»
«No, tesoro, voglio che ti sieda qui accanto a me.»
I bambini continuavano a gridare felici e, anche se so che è banale, non c’è nulla di più bello del riso spontaneo dei bambini. Katarina guardò il marito con un’intensità che mi costrinse quasi a distogliere lo sguardo.
«Lo sai, cara, quanto vogliamo bene ai nostri bambini, vero?»
Lei fece segno di sì con il capo.
«Prova a immaginare se qualcuno ce li portasse via, pensa se qualcosa del genere fosse successa più di un anno fa, pensaci. Immagina se per esempio qualcuno più di un anno fa si fosse portato via Perry e noi non sapessimo ancora dove si trova.» Mi indicò con il dito. «Quest’uomo non sa che fine ha fatto la sua bambina.»
Gli occhi di Katarina brillavano di lacrime.
«Dobbiamo aiutarlo, Kat. Devi dire tutto quello che sai, quello che hai fatto. A me non importa, se ci sono segreti devi dirli ora, metteremo una pietra sopra il passato. Posso perdonare quasi tutto, ma credo che non potrei mai perdonarti se non aiuterai quest’uomo e la sua bambina.»
Lei chinò il capo e rimase zitta.
Rachel tornò alla carica. «Se sta tentando di proteggere l’uomo al quale ha telefonato, non deve preoccuparsi. Qualcuno l’ha ucciso poche ore dopo la sua chiamata, signora.»
Katarina rimase a capo chino. Io mi alzai e presi a camminare su e giù. Da fuori giunse un altro scoppio di risa, mi avvicinai alla finestra. Verne Junior, capii che era lui perché dimostrava circa sei anni, gridò: «Pronto o non pronto, ora arrivo!». I due fratelli stavano giocando a nascondino e non era difficile capire dove si era nascosto Perry, la cui risata giungeva da dietro la Camaro. Verne Junior finse di guardare da un’altra parte, ma all’improvviso scattò verso l’automobile e urlò: «Tana!».
Perry, sempre ridendo, schizzò fuori e si mise a correre. E quando vidi il suo viso sentii il mio mondo, già traballante, accusare un altro duro colpo. Perché l’avevo riconosciuto, Perry.
Era il bambino.che avevo visto poche ore prima dentro l’auto.
Tickner parcheggiò davanti alla casa di Seidman. Non avevano ancora messo le strisce gialle di plastica per delimitare la scena del crimine, ma l’agente federale contò sei autopattuglie e due camioncini delle televisioni. Si chiese se fosse il caso di avvicinarsi, con le telecamere in funzione, dopo il discorso che gli aveva appena fatto Pistillo, il capo del capo. Ma alla fine decise che, anche se fosse stato ripreso in TV, avrebbe sempre potuto dire che era andato lì per informare la polizia locale di avere abbandonato le indagini per lasciarle a loro.
Trovò Regan sul retro, intento a osservare il cadavere. «Chi è?»
«Non ha documenti. Speriamo di identificarlo con le impronte digitali.»
Abbassarono entrambi lo sguardo.
«È simile all’identikit che avevamo fatto l’anno scorso in base alla descrizione di Seidman» osservò Tickner.
«È vero.»
«Che cosa significa, quindi?»
Regan si strinse nelle spalle.
«Che cos’hai saputo, finora?»
«I vicini hanno sentito degli spari e poi uno stridio di pneumatici, quindi hanno visto una BMW Mini che saliva sul giardinetto davanti a casa. Altri spari. Poi è comparso Seidman, secondo un vicino c’era una donna con lui.»
«Rachel Mills, probabilmente» disse Tickner. Sollevò gli occhi al cielo del primo mattino. «Che cosa significa, quindi?»
«Forse la vittima lavorava con la Mills, e lei gli ha tappato la bocca per sempre.»
«Davanti a Seidman?»
«Mah. La BMW Mini mi dice comunque qualcosa; una macchina così ce l’ha anche la socia di Seidman, quella Zia Leroux.»
«Ecco chi l’ha aiutato ad andarsene dall’ospedale.»
«Abbiamo diramato un mandato di ricerca per quell’auto.»
«Sicuramente l’avranno già abbandonata e ne avranno presa un’altra.»
«Sì, è probabile.» Poi Regan s’interruppe. «Guarda, guarda.»
«Che c’è?»
Il detective gli puntò un dito sulla faccia. «Non hai gli occhiali da sole.»
Tickner sorrise. «È un brutto segno?»
«Magari invece è un buon segno, considerando come si sta mettendo questo caso.»
«Sono venuto a dirti che non me ne occupo più, anzi più precisamente è l’FBI che non se ne occupa più. Se potessi dimostrare che la bambina è ancora viva…»
«… e sappiamo entrambi che non lo è…»
«… o che l’hanno portata in un altro stato, probabilmente potrei riprendere le indagini. Ma questo caso non è più competenza dell’FBI.»
«Torni al terrorismo, Lloyd?»
Tickner annuì, riportando poi lo sguardo al cielo. Si sentiva a disagio senza gli occhiali da sole.
«Che cosa voleva, poi, il tuo capo?»
«Dirmi quello che ti ho appena detto.»
«Capisco. Nient’altro?»
«Che il proiettile che aveva ucciso Jerry Camp era stato esploso accidentalmente.»
«E il grande capo ti convoca nel suo ufficio prima delle sei del mattino solo per dirti questo?»
«Sì.»
«Sissignore.»
«M’ha detto anche che di quell’indagine si era occupato personalmente, lui e la vittima erano amici.»
Regan scosse il capo. «Questo vorrebbe dire che Rachel Mills ha amici influenti?»
«No, perché se riesci a inchiodarla per l’omicidio di Monica Seidman e il rapimento della bambina nessuno te l’impedirà.»
«Però non bisogna fare collegamenti con l’uccisione di Jerry Camp, giusto?»
«Hai capito benissimo.»
Si sentirono chiamare: nel giardino del vicino era appena stata trovata una pistola. Fu sufficiente annusarla per rendersi conto che quella pistola aveva sparato di recente.
«Proprio a portata di mano» osservò Regan.
«Esatto.»
«Hai qualche idea?»
«No.» Tickner si voltò a guardarlo. «Il caso è tuo, Bob, lo è sempre stato. Buona fortuna.»
«Grazie.»
Tickner si allontanò.
«Senti, Lloyd» lo chiamò Regan.
Tickner si fermò. La pistola era stata infilata in una busta di plastica, Regan gli diede un’occhiata e poi abbassò lo sguardo sul cadavere.
«Non sappiamo ancora che cosa sta succedendo, vero?»
Tickner si avvicinò alla sua auto. «Non abbiamo nemmeno un indizio.»
Katarina si teneva le mani in grembo. «È morto davvero?»
«Sì» rispose Rachel.
Verne se ne stava in piedi a braccia conserte, visibilmente arrabbiato, da quando gli avevo detto che Perry era il bambino che avevo visto dentro la Honda Accord.
«Si chiamava Pavel, era mio fratello.»
Aspettammo che aggiungesse qualcosa.
«Non era un uomo buono, l’ho sempre saputo. Lui a volte era crudele, il Kosovo ti riduce così. Ma arrivare a rapire una bambina?» Scosse il capo.
«Che cos’è successo?» le chiese Rachel.
Ma lei non staccava gli occhi dal marito. «Verne?»
Lui non la guardò.
«Ti ho mentito, Verne. Ti ho mentito tanto.»
Lui si sistemò i capelli dietro le orecchie e batté le palpebre. Lo vidi inumidirsi le labbra. Ma continuò a non guardarla.
«Non vivevo in una fattoria» disse. «Mio padre morì quando avevo tre anni, mia madre accertava ogni lavoro che riusciva a trovare. Ma non ce la facevamo, eravamo troppo poveri. Ci nutrivamo con le bucce che trovavamo nell’immondizia. Pavel batteva la strada, chiedendo l’elemosina e rubando. A quattordici anni cominciai a lavorare nei sex club, non puoi immaginare che vita facessi, ma in Kosovo non c’è alternativa. Volevo uccidermi, non ti so dire quante volte ci ho pensato.»
Sollevò il capo guardando il marito, che però continuava a guardare altrove. «Guardami» gli disse. Ma lui la ignorò. «Verne?»
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