«Fermi dove siete!»
«Sono un’agente dell’FBI» disse Rachel.
«Chiudi il becco.»
Sempre tenendoci con il viso nella polvere ci fece mettere le mani sulla testa con le dita intrecciate. Poi mi puntò un ginocchio contro la spina dorsale e feci una smorfia di dolore, quindi, facendo leva sul mio corpo, mi tirò indietro le braccia staccandomele quasi dalle spalle. I polsi mi furono legati a regola d’arte con una striscia di nylon flessibile, me li sentivo come quei giocattoli legati in maniera ridicolmente complicata per non farli rubare.
«Unisci i piedi.»
Un’altra manetta di plastica mi legò le caviglie. L’uomo si puntellò sulla mia schiena per sollevarsi in piedi e si rivolse a Rachel. Stavo per dire qualcosa di stupidamente cavalleresco come “Non la toccare!”, ma sapevo che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato inutile. E me ne restai immobile.
«Sono un’agente federale» disse Rachel.
«L’avevo sentito anche la prima volta.»
Le puntò un ginocchio contro la schiena per unirle le mani e lei fece a sua volta una smorfia di dolore.
«Ehi!» gridai.
Quello m’ignorò. Allora mi voltai a guardarlo bene per la prima volta, e fu come tuffarsi nel passato prossimo. La Camaro era sua, indubbiamente. Aveva i capelli simili a quelli dei giocatori di hockey degli anni Ottanta, sembravano freschi di permanente ed erano di uno strano colore biondo-arancione portati dietro le orecchie con un taglio che l’ultima volta che avevo visto era stato in un video di Night Ranger. I baffi erano di un biondo quasi bianco e assomigliavano a una macchia di latte. Sulla T-shirt si leggeva UNIVERSITY OF SMITH AND WESSON. I jeans erano di un blu innaturalmente carico e sembravano rigidi.
«Alzati, signorina, io e te andiamo a fare due passi» disse, dopo avere legato i polsi a Rachel.
Lei cercò di dare alla sua voce un tono autorevole. «Lei non mi sta a sentire» disse, mentre i capelli le ricadevano davanti agli occhi. «Sono Rachel Mills…»
«E io sono Verne Dayton. Allora?»
«Sono un’agente federale.»
«Sul tesserino, veramente, si legge “in pensione”.» Verne Dayton sorrise. Non era sdentato, ma non avrebbe nemmeno potuto posare per la pubblicità di un dentifricio. L’incisivo destro era completamente piegato all’interno come una porta scardinata. «Piuttosto giovane per essere già in pensione, non trovi?»
«Continuo a occuparmi dei casi più importanti. All’FBI sanno che sono venuta qui.»
«Davvero? Non mi dire. Magari c’è un mucchio di agenti che ti aspettano nelle vicinanze e se fra tre minuti non ti vedranno tornare faranno irruzione qui dentro. È così, vero, Rachel?»
Le aveva visto il bluff e lei adesso non sapeva come uscirne.
«Alzati» le disse ancora, e questa volta la tirò su per le braccia.
Rachel si sollevò a fatica.
«Dove la stai portando?» gli chiesi.
Non mi rispose. Si diressero verso il fienile. «Ehi!» gridai, in tono autorevole. «Ehi, tornate qui!» Ma quelli non si fermarono. Rachel cercava di opporsi, ma aveva le mani legate dietro la schiena e ogni volta che si muoveva troppo lui gliele sollevava costringendola a piegarsi. Alla fine lei smise di resistere.
Avevo i nervi tesi per la paura. Cercai freneticamente qualcosa, qualsiasi cosa, per liberarmi. Le pistole? No, Verne se le era già prese e, anche in caso contrario, che cosa avrei potuto fare? Sparare con i denti? Pensai di muovermi rotolando sulla schiena, ma non sapevo bene a che cosa mi sarebbe servito. E allora? Presi a strisciare come un verme verso il trattore, cercando una lama o qualcosa del genere da usare per tagliare il nylon che mi serrava polsi e caviglie.
Udii in lontananza scricchiolare la porta del fienile e girai di scatto il capo, in tempo per vederli entrare. La porta si chiuse alle loro spalle e lo scricchiolio svanì nel silenzio. Frattanto era cessata anche la musica, doveva essere un CD o una cassetta. Tutto taceva e non vedevo più Rachel.
Dovevo liberarmi le mani.
Avanzai strisciando al suolo con il sedere sollevato e, facendo forza con le gambe, raggiunsi il trattore. Allora cercai una lama o un bordo tagliente. Nulla. Girai lo sguardo verso il fienile.
«Rachel!»
L’eco della mia voce nel silenzio fu l’unica risposta. Il mio cuore cominciò a fare capriole.
Oh Dio! E ora?
Mi voltai sulla schiena mettendomi a sedere e poi, facendo forza con le gambe, mi appoggiai al trattore. Ora vedevo bene il fienile, ma non avevo risolto un bel niente. Continuavo a non udire alcun rumore, alcun movimento. Cercai disperatamente con gli occhi qualcosa che potesse ridarmi la libertà di movimento, ma invano.
Mi venne l’idea di cercare nella Camaro. Uno fissato per le armi come quel Verne Dayton probabilmente andava in giro con due o tre pistole e magari ne teneva una nell’auto. Ma, anche se fossi arrivato in tempo alla Camaro, come avrei aperto lo sportello? Come avrei cercato la pistola? E, anche ammettendo che l’avessi trovata, come avrei sparato?
No, dovevo come prima cosa liberarmi di quelle manette.
Cercai per terra… non so nemmeno io che cosa. Un sasso affilato, una bottiglia di birra rotta. Qualcosa, insomma. Mi chiesi quanto tempo fosse passato da quando erano scomparsi alla mia vista, che cosa quello là stesse facendo a Rachel. Temevo che il cuore mi si fermasse da un momento all’altro.
«Rachel!»
Nell’eco di quell’invocazione c’era tutta la mia disperazione. Ero terrorizzato. Ma nemmeno quella volta ebbi una risposta.
Che cosa stava succedendo là dentro?
Cercai nuovamente qualche bordo affilato nel trattore, qualcosa da usare per liberarmi le mani. C’era della ruggine, molta ruggine. Era il caso di provare? Se avessi strofinato quelle rudimentali manette contro un angolo arrugginito sarei riuscito a spezzarle? Ne dubitavo, ma non avevo alternativa.
Riuscii a mettermi in ginocchio, poi portai i polsi a contatto con l’angolo arrugginito e cominciai a muoverli su e giù, come un orso che si gratta la schiena contro un albero. Ma non controllai il movimento e mi tagliai; sentii il dolore propagarsi per tutto il braccio. Mi voltai a guardare la stalla e drizzai le orecchie, ma continuai a non udire nulla.
Allora ripresi a strofinare i polsi contro il trattore.
Ma procedevo a naso poiché, anche girando al massimo la testa, non riuscivo a vedere i polsi. Stavo ottenendo qualche risultato? Non lo sapevo. Ma non avevo altre speranze e quindi continuai a fare su e giù con le braccia, come un Ercole che tenta di spezzare le catene in un film mitologico di second’ordine.
Non so per quanto tempo andai avanti così, forse non più di due o tre minuti, anche se mi sembrò una vita. Il legaccio che mi serrava i polsi non si era spezzato né allentato. Ma a fermarmi fu un rumore, quello della porta del fienile che si apriva. Per un momento non vidi nulla, poi apparve sulla porta il bifolco capellone. Da solo. E venne verso di me.
«Dov’è Rachel?»
Verne Dayton senza dire una parola si chinò a controllare il legaccio di plastica. Avvertivo la sua puzza, sapeva di erba secca e sudore. Lui mi stava controllando le mani. Girando lo sguardo vidi a terra una macchia di sangue, era sicuramente il mio. E mi venne all’improvviso un’idea.
Spostai indietro il capo e gli assestai una testata sulla faccia.
So che effetti devastanti può avere un simile colpo, avevo operato dei volti presi a testate.
Ma questa volta le conseguenze furono meno gravi.
Perché ero in una posizione precaria, avevo mani e piedi legati e mi trovavo in ginocchio. Non riuscii a colpirgli il naso e nemmeno altre parti molli del viso, ma la fronte. Si udì un rumore sordo e Verne Dayton barcollò all’indietro imprecando. E io mi trovai completamente sbilanciato in caduta libera, potendo attutire l’impatto soltanto con la faccia. Atterrai sulla guancia destra e battei i denti, ma ormai non avvertivo più il dolore. Voltai gli occhi e lo vidi, se ne stava seduto cercando di schiarirsi le idee: sulla fronte aveva una ferita.
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