«La troverai sulla sinistra» disse Rachel.
Pochi secondi dopo vidi la cassetta delle lettere e rallentai, in cerca di una casa o di una costruzione qualsiasi. Ma sembrava che ci fossero soltanto alberi.
«Continua a guidare» disse ancora Rachel.
Capii. Non potevamo imboccare il vialetto della casa di quell’uomo e annunciarci. Quattrocento metri circa più avanti trovai una rientranza sulla destra, parcheggiai e spensi il motore. Sentivo il cuore che mi martellava nel petto. Erano le sei del mattino, stava spuntando l’alba.
«La sai usare una pistola?» mi chiese Rachel.
«Sparavo al poligono con quella di papà.»
Lei mi mise in mano un’arma, sulla quale abbassai lo sguardo con la stessa espressione che avrei avuto se mi fossi scoperto un sesto dito. Rachel aveva estratto a sua volta una pistola. «Quella dove l’hai presa?» le chiesi.
«Davanti a casa tua, era del morto.»
«Gesù.»
Si strinse nelle spalle, quasi a dire: “Non si sa mai, caro mio”. Guardai la pistola e all’improvviso mi attraversò la mente un pensiero: era la stessa pistola con cui avevano tentato di uccidermi? La stessa che aveva ucciso Monica? Mi fermai lì, non avevo tempo per quelle assurdità. Rachel era già scesa dall’auto, la imitai e ci inoltrammo tra gli alberi, non esisteva un sentiero e ce l’inventammo. Lei si era infilata la pistola nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena, ma io preferii tenerla in mano. Manifesti di un arancione sbiadito attaccati agli alberi intimavano di tenersi alla larga, si vedeva un grosso NO e sotto, in un corpo molto più piccolo, veniva spiegato diffusamente ciò che a me sembrava abbastanza ovvio.
Ci avvicinammo al punto in cui secondo noi doveva trovarsi il vialetto della casa, e quando lo vedemmo fu come se avessimo trovato il Sacro Graal. Proseguimmo, sempre tenendoci dalla stessa parte, ma qualche minuto dopo Rachel si fermò e io le andai quasi a sbattere contro. Mi indicò qualcosa davanti a noi.
Una struttura.
Assomigliava a una specie di fienile. Ora ci muovevamo con maggiore cautela, ci tenevamo bassi, saltavamo senza parlare da un albero all’altro per non esporci. Dopo un po’ cominciai a sentire della musica, musica country forse, non me ne intendo. Più avanti vidi una radura e mi resi conto che quello che sembrava un fienile era effettivamente un fienile, in stato di completo abbandono. Ce n’era un’altra di struttura, un villino basso o forse una lunga roulotte.
Ci avvicinammo di qualche metro, tenendoci sulla parte destra del bosco, schiacciando il viso contro gli alberi per poi fare capolino. Nel cortile c’era un trattore, notai anche un vecchio Trans Am senza ruote poggiato su quattro blocchi di cemento. Proprio di fronte all’ingresso del villino c’era un’auto bianca, sportivissima, una di quelle supercompresse, con una striscia di plastica nera sul cofano. Sembrava una Camaro.
Non c’erano più alberi, ma ci trovavamo ancora a una cinquantina di metri dal villino. L’erba era così alta da arrivare alle ginocchia. Rachel impugnò la pistola, io tenevo ancora in mano la mia. Si calò a terra e prese ad avanzare strisciando come un soldato dei reparti speciali. Visto in televisione quel modo di procedere sembra piuttosto facile, bisogna solo strisciare tenendo il culo basso, e per tre metri circa è effettivamente facile. Poi le cose si complicano. Mi dolevano i gomiti, l’erba mi si continuava a infilare nel naso e in bocca. Moscerini e affini si sollevavano furiosi perché avevamo disturbato il loro riposino. La musica adesso era più forte, il cantante non azzeccava una nota e si lamentava del suo povero, povero cuore.
Rachel si fermò, le strisciai accanto. «Tutto bene?» mi sussurrò.
Annuii, ma mi mancava il fiato.
«Una volta lì dovremo fare qualcosa e tu devi essere in forze. Possiamo rallentare, se credi.»
Le feci segno di no e ci rimettemmo in movimento. Non avevo alcuna intenzione di rallentare, non era previsto. Ci stavamo avvicinando, ora riuscivo a vedere più distintamente la Camaro. Dietro le ruote posteriori si vedevano due alette antifango di gomma, ciascuna con la sagoma d’argento di una bella ragazza. Sulla coda dell’auto erano stati applicati degli adesivi, su uno dei quali si leggeva: NON SONO LE PISTOLE A UCCIDERE LA GENTE, MA CERTO RENDONO IL COMPITO PIÙ FACILE.
Eravamo arrivati al margine dell’erba e ci sentivamo esposti, quando un cane prese ad abbaiare. Ci bloccammo immediatamente.
Ci sono diversi tipi di latrati. Quello stizzoso di uno di quei seccanti cani da compagnia. Il verso amichevole di un golden retriever. L’avvertimento di un cucciolo fondamentalmente innocuo. E poi c’è quell’abbaiare gutturale del cane da cortile, quel latrato che sembra squassargli il torace e ti gela il sangue nelle vene.
In quest’ultima categoria rientrava il furioso abbaiare che stavamo udendo.
Non ho una particolare paura dei cani. Avevo una pistola e mi sarebbe riuscito più facile, pensavo, usarla contro un cane che contro un essere umano. A spaventarmi era ovviamente il pensiero che tutto quell’abbaiare sarebbe stato udito dagli occupanti della casa. E quindi restammo in attesa. Dopo un paio di minuti il cane tacque e noi tenemmo gli occhi fissi sulla porta del villino. Non sapevo bene che cosa avremmo fatto se fosse uscito qualcuno, se ci avesse visto. Non potevamo sparare, non sapevamo ancora assolutamente nulla; il fatto che dalla casa di un certo Verne Dayton fosse stata fatta una telefonata al cellulare di un morto non aveva in sé un gran significato. Non sapevamo se mia figlia si trovasse lì o no.
In pratica, non sapevamo nulla.
C’erano dei coprimozzo, in cortile, e il sole nascente li faceva brillare. Vidi anche alcuni scatoloni verdi e qualcosa in loro attirò la mia attenzione. Dimenticando qualsiasi precauzione cominciai ad avvicinarmi.
«Aspetta» mi bisbigliò Rachel.
Non potevo aspettare, dovevo guardarli più da vicino quegli scatoloni. Qualcosa in loro… ma non potevo andarli a prendere. Strisciai fino al trattore e mi ci nascosi dietro, poi mi sporsi per guardarli di nuovo. E finalmente riuscii a vederli bene, in particolare la testa di bambino sorridente che sembrava fosse il loro marchio.
Pannolini.
Rachel mi era venuta accanto. Inghiottii a vuoto. Uno scatolone di pannolini, di quelli che compri in confezione risparmio. Se ne accorse anche Rachel e mi mise una mano sul braccio, invitandomi a restare calmo. Tornammo dove ci eravamo fermati, lei mi fece segno che ci saremmo dovuti spostare sotto una finestra di lato e io con il capo le detti una specie di “ricevuto”. Dallo stereo giungeva ora un lungo assolo di violino a tutto volume.
Eravamo appiattiti a terra quando sentii sulla nuca qualcosa di freddo. Volsi lo sguardo verso Rachel e anche lei aveva una canna di fucile puntata contro la base del cranio.
«Lasciate le pistole!» ordinò una voce.
Una voce maschile. Rachel teneva la mano destra, quella con la pistola, piegata davanti al viso: aprì le dita e lasciò cadere l’arma. Uno scarpone da lavoro fece un passo avanti e la allontanò con un calcio. Cercai di valutare le possibilità di cavarcela. Adesso potevo vedere che l’uomo era solo e aveva due fucili, avrei potuto tentare una mossa: io non me la sarei cavata, ma avrei dato a Rachel il tempo di reagire. Incrociai i suoi occhi e vi lessi il panico, sapeva a che cosa stavo pensando. Il fucile all’improvviso aumentò la pressione sulla nuca, schiacciandomi il viso nella polvere.
«Non ci provare, capo. Posso far saltare le cervella a tutt’e due senza problemi.»
Cercai disperatamente qualche altra soluzione, finendo ogni volta in un vicolo cieco. Allora lasciai cadere la pistola e vidi lo sconosciuto allontanare con un calcio le nostre speranze.
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