Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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«Su Internet, in uno di quei siti dove si trovano mogli straniere, sai. Si chiama Cherry Orchid, una volta funzionava per posta, ma ora credo che l’abbiano chiuso. Si entrava nel sito dove c’erano foto di donne di tutto il mondo, dell’Europa orientale, russe, filippine. Ogni foto era accompagnata dalle misure della ragazza, da una breve biografia, da ciò che le piaceva e ciò che non le piaceva, roba del genere insomma. Quando ne trovavi una che faceva al caso tuo, compravi il suo indirizzo, c’erano anche offerte speciali di un pacchetto di indirizzi.»

Rachel e io ci scambiammo una veloce occhiata. «Quanto tempo fa vi siete conosciuti?»

«Sette anni. Abbiamo cominciato mandandoci delle e-mail, Kat viveva in una fattoria in Serbia, i suoi genitori erano poverissimi tanto che lei per potere usare un computer doveva farsi oltre sei chilometri a piedi. Avrei voluto telefonarle, ma non avevano nemmeno il telefono ed era lei a chiamarmi da una cabina. Poi un giorno mi ha detto che veniva in America per conoscermi.»

Verne sollevò le mani, quasi volesse bloccare un’eventuale interruzione. «A questo punto di solito le ragazze come lei ti chiedono soldi per il biglietto aereo e il resto, e io ero pronto a mandarglieli. Lei invece no, è venuta con i suoi mezzi. Sono andato a prenderla a New York e tre settimane dopo ci siamo sposati. Dopo un anno è nato Verne Junior, dopo quattro Perry.»

Bevve un lungo sorso di birra e lo imitai. Era meraviglioso sentirla scendere fredda in gola.

«Ascoltate, lo so che cosa state pensando» riprese Verne. «Ma vi sbagliate. Io e Kat siamo veramente felici. Prima di conoscerla sono stato sposato a una spaccapalle americana di primissima categoria, una che non faceva che lagnarsi e brontolare perché non guadagnavo abbastanza. Passava le giornate in casa a non fare niente, se le chiedevo di caricare e accendere la lavatrice andava su tutte le furie e mi assaliva con le sue frescacce nazi-femministe, mi criticava in continuazione, diceva che ero un fallito. Con Kat è diverso. Tiene la casa in ordine e pulita, e per me è importante. Se lavoro in giardino e fa caldo, lei senza che glielo chieda mi porta una birra e non mi fa una conferenza sul femminismo. C’è forse qualcosa di male in tutto questo?»

Io e Rachel rimanemmo in silenzio.

«Pensateci un po’ su. Perché due persone si sentono attratte reciprocamente? C’entra la bellezza? I soldi? Un lavoro importante? Ci si mette insieme perché ciascuno cerca qualcosa nell’altra persona, è un sistema di dare e avere. Io volevo una donna che mi amasse e allevasse con me i nostri figli, volevo anche una compagna, una che fosse carina con me, roba del genere. E l’ho trovata. Kat voleva lasciarsi alle spalle quella terribile vita, erano così poveri che per loro la sporcizia era un lusso. Io e lei viviamo bene insieme, a gennaio abbiamo portato i bambini a Disney World. Ci piace fare escursioni, andare in canoa. Verne Junior e Perry sono due bravi bambini. Sentite, forse sono un tipo semplice, anzi sono decisamente un tipo semplice. Mi piacciono le armi, mi piace andare a caccia e a pesca… e mi piace soprattutto la mia famiglia.»

Verne abbassò il capo e i capelli gli ricaddero sul viso come il sipario di un teatro. Si mise a staccare l’etichetta dalla bottiglia di birra. «Da certe parti… o in molte parti, non so, i matrimoni sono combinati. È sempre stato così, i genitori decidono e costringono un ragazzo e una ragazza a sposarsi. Ma nessuno ha costretto me e Kate, lei se ne poteva andare quando voleva e lo stesso io. Ma ormai sono passati sette anni, io mi sento felice e anche lei.»

Si strinse nelle spalle. «O, almeno, credevo che fosse felice.»

Bevemmo in silenzio.

«Verne?» gli dissi.

«Sì?»

«Sei un uomo interessante.»

Rise, ma si vedeva che aveva paura e per nasconderla mandò giù un sorso di birra. Si era ritagliato la sua vita, una vita che gli piaceva. È strano, io non so giudicare le persone, la mia prima impressione di solito è sbagliata. Che giudizio avrei mai potuto dare di quel cafone contadino pazzo per le armi, con quei capelli, quegli adesivi sul retro dell’auto, quell’auto mostruosa? E invece, più lo stavo ad ascoltare più mi piaceva. Io dovevo essergli sembrato altrettanto alieno, dal momento che praticamente gli ero entrato in casa armato: ma ciò nonostante, appena avevo cominciato a raccontargli la mia storia, mi era stato ad ascoltare e aveva capito che gli stavo dicendo la verità.

Sentimmo arrivare un’auto e Verne andò alla finestra a guardare. Sul suo viso si dipinse un sorriso triste. C’era la sua famiglia, in quell’auto, la famiglia alla quale voleva tanto bene, che aveva appena protetto dall’invasione di due sconosciuti armati. E ora io, nel tentativo di ricomporre la mia famiglia, stavo probabilmente disgregando la sua.

«Guardate! Papà è in casa!»

Doveva essere Katarina. L’accento era inequivocabilmente straniero, del ceppo balcanico o dell’Europa orientale o russo, non sono un linguista e non saprei quindi dire con esattezza quale. Udii i gridolini felici dei bambini e il sorriso di Verne si fece meno triste. Uscì per andare loro incontro e io e Rachel rimanemmo dov’eravamo. Udivamo il suono veloce di passi sui gradini. I saluti durarono un paio di minuti, io mi guardai le mani mentre Verne diceva qualcosa a proposito di regali nel camioncino e i bambini scattavano per andarseli a prendere.

La porta si aprì e Verne entrò tenendo la moglie allacciata per la vita.

«Marc, Rachel, vi presento mia moglie Kat.»

Era bella. Aveva lunghi capelli lisci, pelle bianchissima, occhi azzurro ghiaccio e il prendisole le lasciava le spalle scoperte. In lei c’era un qualcosa che faceva capire, anche se non l’avessi saputo, che era straniera. O forse lo pensavo proprio perché lo sapevo. Tentai di darle un’età, a prima vista avrei detto sui venticinque anni, ma dalle rughe attorno agli occhi capii che doveva averne una decina di più.

«Salve» dissi.

Mi alzai insieme a Rachel per stringerle la mano, una mano delicata ma dalla stretta più che energica. Katarina mantenne quel suo sorriso da perfetta padrona di casa, ma le costò fatica. Non riusciva a staccare gli occhi da Rachel e dalle sue contusioni ed ecchimosi. Dovevano fare impressione, ma io ormai mi ci ero abituato.

Sempre sorridendo lei guardò il marito come per fargli una domanda. «Sto cercando di aiutarli» disse Verne.

«Aiutarli?» ripeté lei.

I bambini avevano trovato i regali e strillavano felici, ma sembrava che Verne e Katarina non li udissero nemmeno, si guardavano negli occhi e lui le teneva una mano. «A quest’uomo» e mi indicò con il mento «hanno assassinato la moglie e rapito la bambina.»

Lei si portò una mano alla bocca.

«Sono venuto qui per cercare la bambina.»

Katarina non si mosse e il marito fece segno a Rachel di andare avanti al posto suo.

«Ha fatto una telefonata questa notte, signora Dayton?» le chiese Rachel.

La donna sollevò di scatto la testa, allarmata. Guardò prima me come si guarda un fenomeno da baraccone, poi spostò la sua attenzione su Rachel. «Non capisco.»

«Ci risulta che a mezzanotte da questa casa è stata fatta una telefonata a un certo cellulare, e secondo noi a telefonare è stata lei.»

«No, non è possibile.» Gli occhi di Katarina si mossero veloci a destra e a sinistra, come se stesse cercando una via di fuga. Verne, che le teneva ancora la mano, cercò d’intercettare il suo sguardo, ma lei gli sfuggì. «Un momento» disse poi. «Forse ho capito.»

Rimanemmo in attesa.

«Questa notte, mentre dormivo, è squillato il telefono.» Tentò nuovamente di sorridere, ma con notevole difficoltà. «Non so che ora fosse, molto tardi comunque. Pensavo fossi tu, Verne.» Lo guardò e questa volta il sorriso resse e lui glielo restituì. «Ma quando ho risposto non ho sentito nessuno. Allora ho ricordato qualcosa che avevo visto alla televisione, che cioè per richiamare un numero che ci ha appena chiamato bisogna comporre asterisco, sei e nove, È quello che ho fatto, ha risposto un uomo ma non era Verne e allora ho attaccato.»

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