Ora o mai più.
Legato com’ero mi gettai contro di lui, ma non abbastanza velocemente.
Verne Dayton indietreggiò sollevando uno scarpone e, quando fui a distanza utile, me lo schiacciò sulla faccia come se stesse spegnendo i resti di un falò. Caddi all’indietro, lui indietreggiò a distanza di sicurezza e afferrò il fucile.
«Non ti muovere!» Si passò le dita sul taglio in fronte, poi guardò incredulo il sangue. «Ti sei ammattito?»
Ero caduto di schiena e ansavo come una vaporiera. Non mi sembrava di avere qualcosa di rotto ma, ancora una volta, non me ne importava più di tanto. Lui si avvicinò e mi tirò un calcio nelle costole facendomi rotolare sulla pancia. Poi mi afferrò per le braccia e prese a trascinarmi. Tentai di puntare i piedi, ma quello era forte come un bestione e non rallentò nemmeno per salire i gradini della villetta. Mi trascinò su, aprì la porta con una spallata e mi sbatté dentro come un sacco di patate. Poi entrò e chiuse la porta.
Mi guardai attorno e metà di quello che vidi me l’aspettavo, ma non certo il resto. Mi aspettavo di vedere i fucili appesi alla rastrelliera, i moschetti antichi, la doppietta da caccia. C’era anche l’immancabile testa di cervo, una targa incorniciata della National Rifle Association intestata a Verne Dayton e una bandiera americana trapunta. Non mi aspettavo invece di trovarmi in un posto così pulito e arredato con un certo gusto. In un angolo notai un box per bambini, ma i giocattoli non erano sparsi alla rinfusa bensì infilati in uno di quegli armadi in fibra di vetro con i cassetti di diversi colori. E ogni cassetto aveva la sua brava etichetta.
Si sedette e mi guardò, ero a terra bocconi. Lui, con le mani, si mise a posto i capelli, portandoli indietro e tirandoli sopra le orecchie. Aveva il volto affilato. Era proprio il perfetto contadinaccio.
«Sei stato tu a conciarla così?» mi chiese.
Per un attimo non capii di che cosa stesse parlando, poi mi resi conto che si riferiva alle ecchimosi di Rachel. «No.»
«Ti eccita pestare le donne, vero?»
«Tu che cosa le hai fatto?»
Estrasse un revolver, aprì il tamburo e vi infilò una pallottola. Poi lo richiuse, lo fece ruotare e mi puntò l’arma contro la gamba. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno.»
«Vuoi che ti faccia saltare il ginocchio?»
Ne avevo abbastanza. Rotolai sulla schiena, aspettando che premesse il grilletto. Ma lui non sparò e mi lasciò muovere, sempre tenendomi la rivoltella puntata contro. Mi sollevai a sedere, lo guardai fisso e la cosa sembrò sorprenderlo. Fece un passo indietro.
«Dov’è mia figlia?» gli chiesi.
«Che cosa?» Piegò il capo di lato. «Credi di essere divertente?»
Lo guardai negli occhi e capii. Non stava fingendo, non capiva proprio di che cosa stessi parlando.
«Arrivate qui armati» mi disse, arrossendo. «Volevate uccidere me? Mia moglie? I miei bambini?» Sollevò il fucile puntandomelo in faccia. «Spiegami perché non dovrei farvi fuori entrambi e seppellirvi tra gli alberi.»
Bambini. Aveva detto bambini. Qualcosa cominciava a chiarirsi in questo rompicapo. Decisi di azzardare una mossa. «Stammi a sentire» gli dissi. «Mi chiamo Marc Seidman, diciotto mesi fa hanno assassinato mia moglie e rapito mia figlia.»
«Ma di che vai cianciando?»
«Lasciami spiegare, per favore.»
«Aspetta un momento.» Verne si massaggiò il mento, pensieroso. «Mi ricordo di te, ti ho visto in televisione. Ti avevano anche sparato, giusto?»
«Sì.»
«Perché allora ti vuoi fregare i miei fucili?»
Chiusi gli occhi. «Se sono venuto qui non è per fregarti le armi. Sono qui…» ma non sapevo come dirglielo «… sono qui per ritrovare mia figlia.»
Ci impiegò un secondo ad assimilare le mie parole, poi spalancò la bocca. «E tu credi che io abbia qualcosa a che fare con questa storia?»
«Non lo so.»
«Allora è meglio se sputi il rospo.»
Gli spiegai, gli dissi tutto. Anche alle mie orecchie quel racconto sembrava folle, ma Verne stette ad ascoltare dedicandomi la sua completa attenzione. «L’uomo che ha fatto tutto questo, o che è in qualche modo coinvolto, non lo so nemmeno io» dissi alla fine «ha ricevuto sul suo cellulare, che è in mano nostra, una sola telefonata. E veniva da qui, quella chiamata.»
Verne ci rifletté un attimo sopra. «Come si chiama, quest’uomo?»
«Non lo sappiamo.»
«Io telefono a un sacco di gente, Marc.»
«Sappiamo che la telefonata è stata fatta questa notte.»
Verne scosse il capo. «No, lo escludo.»
«Come sarebbe a dire?»
«Non ero a casa, ero in giro a fare consegne e sono tornato circa mezz’ora prima che arrivaste voi. Mi sono accorto che eravate entrati quando Munch, il mio cane, si è messo a ringhiare. Quando abbaia non mi preoccupo, ma se ringhia capisco che c’è qualcuno.»
«Aspetta un momento. Mi stai dicendo che in casa tua nelle ultime ore non c’era nessuno?»
«No, c’erano mia moglie e i bambini, che hanno però sei e tre anni e non credo che abbiano telefonato a qualcuno. E poi conosco Kat, non è il tipo da mettersi a telefonare di notte.»
«Kat?»
«Mia moglie, Kat è il diminutivo di Katarina. È serba.»
«Vuoi una birra, Marc?»
«Con molto piacere, Verne» mi sorpresi a rispondergli.
Verne Dayton mi aveva tagliato il legaccio di plastica e mi stavo massaggiando i polsi. C’era Rachel accanto a me, lui non le aveva fatto del male. Aveva solo voluto separarci, anche perché secondo lui l’avevo ammazzata di botte per costringerla ad aiutarmi. Verne aveva una notevole collezione di armi da fuoco, molte delle quali ancora funzionanti, e c’erano persone un po’ troppo interessate ad averle. Ci aveva quindi scambiato per ladri di armi.
«Una Bud va bene?»
«Certo.»
«E tu, Rachel?»
«No, grazie.»
«Una bibita? Un bicchiere di acqua ghiacciata?»
«L’acqua va benissimo, grazie.»
Verne sorrise, il che non era precisamente un bello spettacolo. «Arriva subito.» Io ripresi a massaggiarmi i polsi, lui se ne accorse e fece un sorriso furbo. «Li usavamo durante la guerra del Golfo, quei legacci di plastica, e ti assicuro che con quelli riuscivamo a tenere a bada gli iracheni.»
Scomparve in cucina e guardai Rachel, che si strinse nelle spalle. Verne tornò con due birre Bud e un bicchiere d’acqua. Distribuì il tutto, sollevò la sua bottiglia facendo cin cin con la mia e si sedette.
«Ho due maschietti, Verne Junior e Perry. Se dovesse succedergli qualcosa…» Fece un fischio e scosse il capo. «Non so come faccia tu la mattina ad alzarti dal letto.»
«Penso a come ritrovare la mia bambina.»
Verne annuì energicamente. «Posso immaginarlo, certo. Ma non bisogna prendersi in giro, non so se mi spiego.» Guardò Rachel. «Sei proprio certa che quel numero di telefono fosse il mio?»
Rachel tirò fuori il cellulare, premette alcuni tasti e poi gli mostrò il piccolo schermo, mentre lui con la bocca tirava fuori dal pacchetto di Winston una sigaretta. Dopo avere letto il numero, Verne scosse il capo. «Non riesco a capire.»
«Speriamo che tua moglie possa esserci utile.»
Annuì lentamente. «Mi ha lasciato un biglietto per farmi sapere che era andata a comprare da mangiare, le piace fare la spesa nelle primissime ore della giornata, di solito va a quell’A P che resta aperto ventiquattro ore su ventiquattro.» S’interruppe e mi accorsi che era tormentato, non gli andava l’idea che sua moglie potesse avere telefonato a uno sconosciuto a mezzanotte. Sollevò la testa. «Ti cambio la medicazione, Rachel?»
«Sto bene, non ce n’è bisogno.»
«Sicura?»
«Davvero grazie.» Rachel sollevò con entrambe le mani il bicchiere d’acqua. «Posso chiederti, Verne, come vi siete conosciuti tu e Katarina?»
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