«Credi che collaborerà?» chiesi.
Rachel si strinse nelle spalle.
Tatiana ci aveva garantito la sua collaborazione, ma non sapevo se crederle. Così, per non sbagliare, avevo staccato il telefono dalla presa, portandomi via il filo della cornetta. Poi mi ero messo a cercare eventuali foglietti di carta e penne in modo da evitare che la ragazzina passasse un biglietto a chi sarebbe venuto, ma non ne trovai. Rachel aveva messo sul davanzale il suo cellulare acceso, per ascoltare ciò che veniva detto, e ora Katarina se ne stava con il suo di cellulare appoggiato all’orecchio, pronta a tradurre.
Mezz’ora dopo il rombo di un motore annunciò l’arrivo nel parcheggio di una Lexus SC 430 color oro metallizzato. Espressi con un fischio il mio apprezzamento, un collega all’ospedale si era appena comprato quell’auto, che gli era costata sessantamila dollari. La donna che scese dalla Lexus aveva i capelli bianchi, corti, indossava una camicetta bianca come i capelli ma troppo stretta e, tanto per rimanere in tema, dei pantaloni bianchi così aderenti da sembrare una seconda pelle. Aveva braccia tornite e abbronzate, insomma avete capito che tipo di donna era. Ricordava le socie ultraquarantenni dei tennis club che si conciano come se avessero vent’anni.
Rachel e io ci voltammo contemporaneamente verso Katarina, che annuì con aria solenne. «Sì, è lei quella che mi ha aiutato a partorire.»
Subito dopo vidi Rachel armeggiare con il palmare. «Che cosa stai facendo?» le chiesi.
«Inserisco tipo e numero di targa dell’auto, tra qualche minuto dovremmo sapere a chi è intestata.»
«E come fai?»
«Non è difficile, tutti quelli che appartengono alle forze dell’ordine hanno i propri contatti, ma anche nel caso non ne avessero, possono sempre pagare qualcuno alla Motorizzazione. Cinquecento dollari, di solito.»
«Sei in rete o qualcosa del genere?»
Fece di sì con il capo. «È un modem senza fili. Un mio amico, Harold Fisher, fa il tecnico di computer free-lance e non gli è piaciuto il modo in cui l’FBI mi ha costretto ad andarmene.»
«E allora ti dà una mano?»
«Sì.»
La donna dai capelli bianchi infilò un braccio dentro l’auto e tirò fuori quella che sembrava una borsa da medico, poi inforcò un paio di occhiali da sole griffati e si diresse a grandi passi verso la stanza di Tatiana. Bussò, la porta si aprì, e lei entrò. Mi voltai a guardare Katarina, che aveva selezionato la modalità MUTE sul suo cellulare. «Tatiana le sta dicendo che ora si sente meglio, la donna è seccata perché l’ha chiamata senza motivo.» S’interruppe.
«Hanno detto qualche nome, finora?»
Lei scosse il capo. «La donna sta per visitarla.»
Rachel fissava il suo piccolo palmare come se fosse stato una sfera di cristallo. «Bingo! Ci siamo.»
«Che cosa?»
«Denise Vanech, 47 Riverview Avenue, Ridgewood, New Jersey. Quarantasei anni. Neanche una multa per divieto di sosta.»
«Come hai fatto ad avere queste informazioni tanto velocemente?»
«Harold non deve fare altro che comporre sulla tastiera il numero di targa. Adesso sta cercando eventuali altri dati.» Rachel si mise nuovamente ad armeggiare con il palmare. «Nel frattempo inserisco il nome su Google.»
«Il motore di ricerca?»
«Sì, e non puoi immaginare quello che si riesce a trovare.»
Lo sapevo, invece, una volta avevo inserito il mio nome, ma non ricordo nemmeno perché. Io e Zia eravamo ubriachi e avevamo inserito i nostri nomi dopo esserci collegati, lei diceva che era come “far fare del surfing all’ego”.
«Non parlano molto» stava dicendo Katarina, concentratissima all’ascolto. «Forse la sta visitando.»
Spostai lo sguardo su Rachel. «Ho trovato due cose su Google. La prima è il sito dell’Ufficio programmazione della contea di Bergen: la Vanech ha fatto richiesta di modifica della destinazione d’uso della sua proprietà. L’altra è più interessante: è un sito che ti mette in contatto con i vecchi compagni di scuola o di università.»
«Con gli ex allievi di quale scuola o università voleva mettersi in contatto?»
«Con quelli del corso di Ostetricia dell’Università di Philadelphia.»
Poteva aver senso.
«Hanno terminato» disse Katarina.
«Veloci» osservai. «Molto.»
Katarina stava ancora ascoltando. «La donna sta dicendo a Tatiana di riguardarsi, di mangiare meglio per il suo bambino. E di chiamarla se avrà altri disturbi.»
Mi voltai verso Rachel. «Sembra più gentile di quando è arrivata.»
La presunta Denise Vanech uscì camminando a testa alta e sculettando. La camicetta troppo stretta era a coste e, non potei fare a meno di notare, anche abbastanza trasparente. La donna salì in macchina e si allontanò.
Misi in moto la Camaro, che si avviò come un vecchio fumatore catarroso, e seguii la Lexus a distanza di sicurezza. Non mi preoccupava l’idea di perderla di vista, ora che conoscevamo l’indirizzo della donna.
«Continuo a non capire» dissi a Rachel. «Come fanno a farla franca comprando neonati?»
«Trovano donne disperate e le attirano qui promettendo loro soldi e una casa sicura e comoda per i loro bambini.»
«Ma per l’adozione bisogna seguire una certa procedura, una vera rottura di palle. Conosco gente che ha tentato di far venire in America dei bambini stranieri, e non puoi immaginare quale trafila burocratica bisogna sobbarcarsi. È impossibile.»
«Non saprei risponderti, Marc.»
Denise Vanech imboccò la New Jersey Turnpike in direzione nord, la strada che la riportava a Ridgewood, e io aumentai la distanza che ci separava da lei. Vidi accendersi il lampeggiatore destro e la Lexus uscì all’autogrill Vince Lombardi. La Vanech parcheggiò, scese ed entrò. Accostai su un lato del parcheggio e guardai Rachel, che si stava mordicchiando il labbro.
«Potrebbe essere andata in bagno» dissi.
«Si è lavata dopo avere visitato Tatiana. Perché non ci è andata allora?»
«Forse ha fame.»
«Ti sembra il tipo che mangia hamburger, Marc?»
«Che facciamo, allora?»
Non c’era tempo da perdere. Rachel afferrò la maniglia dello sportello. «Lasciami davanti alla porta.»
Denise Vanech era abbastanza sicura che Tatiana si fosse inventata tutto.
Aveva parlato di un’emorragia, la ragazza, ma Denise aveva controllato le lenzuola e non si vedevano tracce di sangue nonostante non fossero state cambiate. Le mattonelle del gabinetto erano pulite, così come la tavoletta del water. Di sangue insomma non c’era nemmeno l’ombra.
Quel particolare da solo non avrebbe significato granché, naturalmente: era possibile che la ragazza avesse pulito tutto con cura. Ma c’era dell’altro. L’esame ginecologico non aveva rilevato la presenza di nulla di anomalo, niente. Sui peli vaginali non si notavano tracce di sangue. Denise aveva anche controllato la doccia: asciutta. Tatiana aveva chiamato meno di un’ora prima, dicendo di avere un’emorragia.
I conti non tornavano.
E poi c’era qualcosa che non andava nel modo di fare della ragazza. Quelle come lei erano sempre spaventate, comprensibilmente. Denise aveva lasciato la Jugoslavia all’età di nove anni, quando ancora c’era Tito. Vivevano in pace, ma lei conosceva bene la miseria. Per questa ragazza, considerando da dove veniva, gli Stati Uniti dovevano somigliare a Marte. Ma la sua era una paura di tipo diverso. Le ragazze di solito guardavano Denise come si guarda un genitore o un salvatore, con un misto cioè di trepidazione e di speranza. Quella ragazza aveva invece evitato il suo sguardo, era visibilmente irrequieta: e c’era qualcos’altro. Era stato Pavel a portare in America Tatiana, e lui sapeva tenere a bada le sue donne. Pavel però non si era visto e Denise stava per chiedere alla ragazza dov’era andato, ma poi aveva deciso di attendere e darle corda. Se fosse stato tutto normale Tatiana avrebbe sicuramente fatto il nome di Pavel.
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