Telefonai a Rachel appena arrivato al MetroVista. Lei aveva parcheggiato in fondo alla strada dove abitava Denise Vanech. Eravamo pronti a entrare in azione.
Non sapevo bene che cosa mi aspettavo che succedesse. Mi vedevo irrompere nell’ufficio privato di Bacard, puntargli la pistola in faccia e chiedergli delle risposte. Ma ciò che non avevo previsto era di ritrovarmi in un ufficio modernissimo, con le sue brave reception e sale d’attesa. C’era già una coppia che stava aspettando, marito e moglie avrei detto. Il marito teneva il viso immerso in una copia di “Sports Illustrated” con la copertina plastificata, la moglie sembrava che stesse soffrendo: tentò di sorridermi, ma quello sforzo probabilmente aveva aumentato il suo dolore.
Mi resi conto che dovevo essere impresentabile. Avevo ancora indosso la divisa da chirurgo, non mi ero rasato, avevo gli occhi rossi per la notte in bianco e i capelli per aria come se invece fossi appena sceso dal letto.
La receptionist sedeva dietro un vetro scorrevole. Si chiamava Agnes Weiss, come si leggeva sulla targhetta, e mi rivolse un sorriso dolce.
«Posso esserle utile?»
«Devo vedere l’avvocato Bacard.»
«Ha un appuntamento?» Era una domanda per lei retorica, anche se il suo tono di voce era rimasto gentile. La risposta evidentemente la conosceva già.
«È un’emergenza.»
«Capisco. Lei è un nostro cliente, signor…?»
«Dottore» la corressi automaticamente. «Gli dica che il dottor Marc Seidman ha bisogno di vederlo immediatamente, che si tratta di un’emergenza.»
La giovane coppia ora ci stava osservando. E il dolce sorriso della receptionist non era più tanto dolce. «L’agenda dell’avvocato Bacard è già piena per oggi.» Aprì la rubrica degli appuntamenti. «Mi faccia vedere quando potrà riceverla, per favore.»
«Agnes, mi guardi.»
Mi guardò.
Le rivolsi un’espressione grave, della serie “se non si opera immediatamente potrebbe morire”. «Gli dica che c’è il dottor Seidman e che si tratta di un’emergenza. Gli dica anche che se non mi riceve subito andrò alla polizia.»
La giovane coppia si scambiò un’occhiata.
Agnes si mosse a disagio sulla poltroncina. «Se vuole sedersi…»
«Glielo dica.»
«Se non si allontana di qualche passo chiamerò la sicurezza, signore.»
Indietreggiai e mi fermai a una distanza che la receptionist potesse considerare di sicurezza. Lei richiuse il vetro scorrevole. «Lo sta coprendo» mi disse l’uomo in attesa.
«Jack!» esclamò la moglie.
Lui la ignorò. «Bacard è uscito di corsa mezz’ora fa e quella donna continua a ripeterci che tornerà subito.»
Notai una parete piena di fotografie e mi avvicinai a guardarle. In tutte c’era lo stesso uomo ritratto insieme a politicanti da strapazzo, celebrità di second’ordine, atleti caduti in disgrazia. Doveva essere Steven Bacard, conclusi. Lo guardai bene: era grassoccio, con il mento sfuggente e aveva la carnagione lucida.
Ringraziai Jack e corsi alla porta. L’ufficio di Bacard era al primo piano e decisi quindi di aspettarlo sul portone, in modo da poterlo sorprendere in campo neutro prima che Agnes avesse modo di avvertirlo. Trascorsero cinque minuti. Vidi passare diversi impiegati, spossati dalla loro esistenza fatta di toner per stampanti e di fermacarte, appesantiti da borse grosse come bagagliai di un’auto. Continuai a camminare su e giù.
Entrò un’altra coppia e dal loro passo incerto e dagli occhi stanchi capii che anche loro stavano andando da Bacard. Li guardai, chiedendomi che cosa li avesse indotti a prendere quella decisione. Li vidi sposarsi, tenersi per mano, baciarsi, fare l’amore la mattina. Li vidi fare carriera. Li vidi anche preoccuparsi davanti ai primi, inutili tentativi di concepire un figlio: “Aspettiamo il prossimo mese” dicevano a ogni test di gravidanza negativo, ma il tormento si faceva pian piano più forte. Passa un anno. E ancora nulla. Gli amici cominciano ad avere bambini e non parlano d’altro. I rispettivi genitori vogliono sapere quand’è che diventeranno nonni. Vedo marito e moglie andare da un medico, “uno specialista”, vedo le infinite analisi alle quali deve sottoporsi lei, l’umiliazione di masturbarsi dentro una provetta per lui, le domande intime, i campioni di sangue e di urina. Passano altri anni. Gli amici si sono in pratica allontanati. Fare l’amore adesso è praticamente finalizzato alla riproduzione, è un’attività programmata e velata di tristezza. Lui non le tiene più la mano. Lei a letto si gira dall’altra parte, a meno che non sia il periodo fecondo del ciclo. Vedo le medicine, l’inseminazione artificiale dai costi proibitivi, e poi un secondo tentativo, altri test di gravidanza, la delusione insopportabile.
E ora eccoli lì.
No, non sapevo se quello fosse veramente il caso loro, ma sentivo di esserci andato vicino. E mi chiesi fino a che punto si sarebbero spinti per lenire quel dolore, quanto sarebbero stati disposti a pagare.
«Oh mio Dio! Oh mio Dio!»
Mi girai di scatto verso il punto da cui proveniva quel grido. Un uomo entrò di corsa sbattendo la porta. «Chiamate il Pronto intervento!»
«Che succede?» gli chiesi.
Udii un altro grido e corsi fuori. Ancora un grido, questa volta più stridulo.
Guardai a destra: due donne stavano uscendo di corsa dal garage sotterraneo. Mi precipitai giù, superando la barriera davanti alla quale si prende il biglietto. Vi furono altre invocazioni di aiuto, altre affannose richieste del Pronto intervento.
Più avanti vidi un vigilante parlare dentro un walkie-talkie, poi allontanarsi di corsa. Lo seguii. Girato l’angolo, l’uomo si fermò accanto a una donna, che si teneva le mani in faccia e urlava. Li raggiunsi e guardai a terra.
Il cadavere era disteso tra due auto, con gli occhi sbarrati sul nulla. Il viso era ancora grassoccio, il mento sfuggente e la carnagione lucida. Da una ferita alla testa sgorgava del sangue. E il mio mondo tornò a vacillare.
Steven Bacard, forse la mia ultima speranza, era morto.
Rachel suonò il campanello. Quello di casa Vanech aveva una di quelle suonerie pretenziose che raggiungono le tonalità acute per poi scendere a quelle basse. Il sole era ormai alto nel cielo azzurro e limpido. In strada due donne camminavano veloci stringendo tra le mani due piccoli manubri viola. Salutarono Rachel con un cenno del capo, senza saltare un passo. Lei ricambiò.
«Sì?» disse una voce al citofono.
«Denise Vanech?»
«Chi parla, prego?»
«Mi chiamo Rachel Mills, sono un’ex agente dell’FBI.»
«Un’ex, ha detto?»
«Sì.»
«Che cosa desidera?»
«Dobbiamo parlare, signora Vanech.»
«Di che cosa?»
Rachel sospirò. «Potrebbe aprire il portone, per favore?»
«No, fino a quando non mi dirà che cosa vuole.»
«Si tratta della ragazzina che lei ha appena visitato a Union City. Tanto per cominciare.»
«Mi dispiace, ma non parlo dei miei pazienti.»
«Per cominciare, ho detto.»
«E poi mi spiega che cosa c’entra in questa faccenda un’ex agente dell’FBI?»
«Preferisce che chiami un agente ancora in servizio?»
«Non m’interessa quello che vuole fare, signora Mills, e non ho altro da dirle. Se l’FBI ha da farmi delle domande può rivolgersi al mio avvocato.»
«Capisco. E il suo avvocato sarebbe Steven Bacard?»
Seguì un breve silenzio. Rachel si voltò a guardare l’auto.
«Signora Vanech?»
«Non sono tenuta a parlare con lei.»
«No, è vero. Vuol dire che comincerò a bussare a ogni porta e a parlare con i suoi vicini.»
«Per chiedergli cosa?»
«Se sanno nulla di un traffico di neonati di cui lei è uno degli artefici.»
La porta venne aperta di scatto e fecero capolino i capelli bianchi e l’abbronzatura di Denise Vanech. «La querelerò per diffamazione.»
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