«È vero.»
«Come fate, allora?»
Lei sorrise. «Vuole incastrarmi, vero?»
«Non lo so che cosa farò.»
Denise sorrideva ancora. «Si ricorderà che ho collaborato, vero?»
«Sì.»
Denise Vanech congiunse le mani e chiuse gli occhi, come se stesse pregando. «Ci serviamo di madri americane.»
Rachel fece una smorfia. «Come dice?»
«Per esempio, poniamo che Tatiana stia per avere un bambino. Noi ci rivolgeremmo a lei, Rachel, perché sostenga che il bambino è suo. Per fare questo lei dovrà andare nove mesi prima o giù di lì all’ufficio anagrafe della sua città, comunicare che è incinta e che vuole far nascere il bambino in casa e pertanto di non aspettarsi certificati dall’ospedale. Le daranno dei moduli da compilare e nessuno si sognerà di controllare se lei è veramente incinta. Come potrebbero, d’altronde? Non le possono mica fare una visita ginecologica.»
«Gesù!»
«È piuttosto semplice, se ci pensa. Non esiste alcuna prova scritta che Tatiana sta per avere un bambino, perché alla dogana non l’ha dichiarato, ma esiste la prova scritta che lei è incinta, Rachel. Io faccio nascere il bambino di Tatiana e attesto per iscritto che il figlio è stato messo al mondo da Rachel Mills, che diventa quindi a tutti gli effetti la madre. Bacard poi le fa riempire i moduli per l’adozione…» Si strinse nelle spalle.
«I genitori adottivi non sapranno quindi mai la verità.»
«No, ma non cercano nemmeno di scoprirla. Sono disperati, non vogliono sapere niente.»
Rachel si sentì all’improvviso come svuotata.
«E comunque prima di denunciarci consideri un altro particolare» proseguì Denise. «Svolgiamo quest’attività ormai da quasi dieci anni, il che significa che ci sono bambini, decine di bambini, che durante questi anni sono stati felicemente sistemati presso famiglie americane. Le loro adozioni verrebbero considerate nulle, le madri naturali potrebbero volere indietro i loro figli. O farsi pagare nuovamente. Rovinereste un mucchio di esistenze, insomma.»
Rachel scosse il capo. Ci avrebbe pensato più avanti a quelle conseguenze, non ora. Stava per uscire dalla carreggiata e invece non doveva perdere di vista la meta. Si voltò, raddrizzò le spalle e fissò Denise.
«Che cosa c’entra in questa faccenda Tara Seidman?»
«Chi?»
«Tara Seidman.»
Questa volta fu Denise a mostrarsi confusa. «Aspetti un momento, non era quella neonata rapita a Kasselton?»
Il cellulare di Rachel squillò e sul display apparve il numero di Marc. Stava per premere il tasto verde di risposta quando vide comparire un uomo e il respiro le si bloccò in gola. Denise se ne accorse, si voltò e vedendolo trasalì.
Era l’uomo del parco.
Aveva mani così grosse che la pistola che teneva puntata contro Rachel sembrava un gingillo. Le fece un segno con le dita. «Dammi quel telefono.»
Lei glielo porse, cercando in tutti i modi di evitare il contatto. L’uomo allora le mise la pistola alla tempia. «Dammi la tua pistola.»
Rachel infilò la mano nella borsetta e lui le ordinò di tirare fuori la pistola tenendola con due dita. Rachel obbedì, e intanto il telefono continuava a squillare.
L’omone premette il tasto di risposta. «Dottor Seidman?»
Anche Rachel riuscì a sentire la risposta. «Chi parla?»
«Ora siamo a casa di Denise Vanech. Se verrà qui solo e disarmato, le dirò tutto su sua figlia.»
«Dov’è Rachel?»
«È qui con me. Le do trenta minuti, dottore, e le dirò tutto ciò che deve sapere. In queste situazioni lei cerca sempre di fare il furbo. Non lo faccia, questa volta, altrimenti la sua amica Mills sarà la prima a morire. Capito bene?»
«Capito.»
L’uomo chiuse la comunicazione e abbassò lo sguardo su Rachel. Aveva occhi nocciola con una sfumatura dorata. Sembravano quasi dolci, come gli occhi di un cerbiatto. Poi l’omone spostò lo sguardo su Denise Vanech, che si ritrasse. E le sorrise.
Rachel capì che cosa stava per fare.
«No!» urlò, mentre l’omone puntava la pistola contro il petto di Denise ed esplodeva tre colpi, che andarono tutti a bersaglio. Denise si accasciò, scivolando dal divano sul tappeto. Rachel fece per alzarsi, ma la pistola adesso era puntata contro di lei.
«Non ti muovere.»
Obbedì. Denise Vanech era chiaramente morta. Aveva gli occhi spalancati e sul tappeto si stava allargando una pozza di sangue, formando un’incongrua macchia rossa in quel mare di bianco.
E adesso che cosa faccio?
Avevo telefonato a Rachel per informarla che Steven Bacard era stato assassinato, e ora quell’uomo la teneva in ostaggio. Quale avrebbe dovuto essere la mia prossima mossa? Cercai di riflettere, di analizzare attentamente la situazione, ma non avevo abbastanza tempo. Quell’uomo al telefono aveva detto giusto, in precedenza avevo fatto il furbo. Alla prima consegna del riscatto avevo avvertito la polizia e l’FBI, alla seconda mi ero fatto aiutare da un’ex agente federale. Mi ero rimproverato più volte per il fallimento della prima consegna, ma adesso non più. Tutt’e due le volte avevo rischiato, ma ora mi rendo conto che l’esito di quel gioco era stato stabilito in partenza. Non avevano mai avuto l’intenzione di restituirmi la mia bambina, né diciotto mesi fa né la scorsa notte.
E nemmeno ora.
Forse stavo cercando da tempo una risposta che invece conoscevo fin dall’inizio. Verne aveva capito il mio dilemma. Ricordo ancora quel suo monito: “Ma non bisogna prendersi in giro”. E invece mi ero veramente preso in giro. Anche ora che stavamo smascherando un turpe traffico di bambini indulgevo alla speranza. Forse, mi dicevo, mia figlia è viva, forse anche lei è stata data in adozione. Un pensiero orribile, certo, ma non quanto l’unica altra ipotesi possibile: cioè che Tara fosse morta.
Non sapevo più che cosa pensare.
Guardai l’ora, erano passati venti minuti. Mi chiesi come giocarmela, ma c’erano della priorità da rispettare. Chiamai Lenny in studio al suo numero diretto.
«A East Rutherford è appena stato ucciso un certo Steven Bacard» dissi.
«Bacard l’avvocato?»
«Lo conosci?»
«Ci siamo incontrati nel corso di un processo qualche anno fa.» Poi una pausa. «Maledizione!»
«Che c’è?»
«Prima mi hai fatto una domanda su Stacy e le adozioni, e non capivo il nesso. Ma ora che sento il nome Bacard… Stacy mi chiese informazioni su di lui tre o quattro anni fa.»
«Che tipo di informazioni?»
«Non ricordo più, qualcosa sulla maternità.»
«Che significa?»
«Non lo so, non le diedi molta importanza. Le raccomandai di non firmare nulla prima di essersi consigliata con me. Come fai a sapere che è stato assassinato?»
«Ho appena visto il suo cadavere.»
«Accidenti, non dire altro, magari qualcuno ci sta ascoltando.»
«Ho bisogno del tuo aiuto. Chiama la polizia e fai mettere sotto sequestro l’archivio di Bacard, aveva messo in piedi una rete di adozioni illegali e forse ha avuto a che fare con il rapimento di Tara.»
«Avuto a che fare come?»
«Non ho il tempo di spiegartelo.»
«D’accordo, chiamo subito Tickner e Regan. Regan ti sta cercando per mare e per terra, sai.»
«L’immaginavo.»
Riattaccai prima che potesse farmi altre domande. Non sapevo bene nemmeno io che cosa speravo la polizia potesse trovare nell’archivio di Bacard, non volevo credere che la verità sulla sorte di Tara fosse sepolta in un dossier di uno studio legale. Ma non potevo escluderlo. Quindi se adesso le cose per me si fossero messe male, e c’erano serie possibilità che così fosse, volevo che qualcuno andasse a fondo in quella storia.
Ero arrivato a Ridgewood e non avevo creduto nemmeno per un attimo alle parole del tipo al telefono. Quella non era gente disposta a scambiare informazioni, aveva il compito di fare piazza pulita: io e Rachel sapevamo troppo e così mi stavano attirando in quella casa per ucciderci entrambi.
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