Sul cartello si leggeva METROVISTA e il parcheggio era una spianata apparentemente senza fine che scompariva al di là della palude. MetroVista era un complesso edilizio per uffici tipico del New Jersey, realizzato durante la grande espansione degli anni Ottanta. Centinaia di uffici freddi e impersonali, slanciati e metallici, con troppe finestre dai vetri oscurati che non lasciavano filtrare abbastanza sole. Si udiva il ronzio delle lampade alogene e si poteva immaginare, se non addirittura udire, quello delle api operaie.
«Non si sono fermati per fare benzina» bisbigliò Rachel.
«Che facciamo, allora?»
«Non abbiamo scelta. Continuiamo a seguire i soldi.»
Heshy e Lydia si mossero verso ovest in direzione della Garden State Parkway. Steve Bacard li seguiva su un’altra auto. La donna strappò le fascette di ogni mazzetta e impiegò dieci minuti per trovare la microspia. La tolse dal suo alloggiamento tra le banconote.
Poi la sollevò per farla vedere a Heshy. «Ingegnoso» commentò.
«Non sarà che siamo scarsi noi?»
«Non siamo mai stati perfetti, orsacchiotto.»
Heshy non replicò. Lydia abbassò il finestrino, mise fuori il braccio e fece segno a Bacard di seguirli. Lui fece a sua volta segno di avere capito. Quando rallentarono in vista del casello, Lydia diede un buffetto a Heshy e scese dall’auto, portandosi dietro i soldi, e lui rimase solo con la microspia. Se a quella Rachel fosse rimasta un po’ di energia o se la polizia si fosse accorta di ciò che stava succedendo, avrebbero fermato Heshy, ma lui prima si sarebbe sbarazzato della cimice gettandola dal finestrino. Quelli l’avrebbero trovata, certo, ma non avrebbero potuto dimostrare che era stata lanciata da quell’auto. E, anche in questo caso, avrebbero perquisito Heshy e l’auto senza trovare assolutamente nulla: non la bambina, non il biglietto con la richiesta di riscatto, non il riscatto. Era pulito.
Lydia corse sull’altra auto accanto a Steven Bacard. «Hai Pavel in linea?» gli chiese.
«Sì.»
Gli prese il telefono. Pavel cominciò a gridare nella sua lingua, lei attese e poi gli comunicò il luogo dell’appuntamento. Quando Bacard lo sentì si voltò di scatto verso di lei, che sorrise. Pavel non poteva ovviamente capire che cosa significasse quel posto particolare: e perché, poi, avrebbe dovuto capirlo? Continuò per un po’ a protestare, ma alla fine si calmò abbastanza per assicurarle che sarebbe stato della partita. Lei chiuse la comunicazione.
«Non farai sul serio» le disse Bacard.
«Shh.»
Il piano era tutto sommato semplice. Lydia e Bacard sarebbero arrivati per primi sul luogo dell’appuntamento mentre Heshy, sempre con la microspia in tasca, avrebbe preso tempo. Poi, una volta preparato tutto, Lydia avrebbe telefonato per farlo venire e allora, e solo allora, lui si sarebbe mosso. E la Mills, c’era da sperare, avrebbe seguito il segnale della microspia.
Lydia e Bacard arrivarono sul posto una ventina di minuti dopo e lei notò subito un’auto parcheggiata alla fine dell’isolato. Era una Toyota Celica. Immaginò che l’avesse rubata Pavel, e la cosa non le piacque. Le auto insolite parcheggiate in strade come quelle si notavano. Lanciò un’occhiata a Steven Bacard, pallido come un cencio e quasi estraniato, come sospeso in aria: stringeva freneticamente il volante e da lui emanavano vere e proprie ondate di paura. Non aveva il fegato per quelle cose, Bacard, e rappresentava quindi un punto debole.
«Puoi farmi scendere» gli disse.
«Voglio sapere che cos’hai intenzione di fare qui.»
Lei si limitò a guardarlo.
«Mio Dio!»
«Risparmiami l’indignazione.»
«Eravamo d’accordo di non fare del male a nessuno.»
«Come a Monica Seidman, intendi dire?»
«Noi non abbiamo avuto niente a che fare con lei.»
Lydia scosse il capo. «E la sorella di Seidman… come si chiamava, Stacy?»
Bacard aprì la bocca come per controbattere, poi chinò il capo. Lei sapeva che cosa stava per dire, che Stacy Seidman era una tossica e quindi sacrificabile, un rottame, un pericolo, e poi era già quasi morta: qualsiasi giustificazione gli fosse passata per la mente, insomma. I tipi come Bacard cercano sempre delle giustificazioni, lui era veramente convinto di aiutare la gente e non di vendere bambini. Così facendo si metteva in tasca un sacco di quattrini e violava la legge, ma correva anche tremendi rischi per fare felici dei genitori mancati. Non meritava quindi un adeguato compenso?
Ma Lydia non aveva alcun interesse a indagare nella sua psiche né ad ammorbidirla. In auto aveva contato i soldi. Era stato lui a cercarla e la parte di lei era di un milione di dollari, mentre l’altro milione l’intascava Bacard. Si mise in spalla la sacca di tela con i soldi suoi e di Heshy, poi scese dall’auto. Steven Bacard continuò a guardare fisso davanti a sé, ma non rifiutò il denaro, non la richiamò per dirle che di quella faccenda se ne lavava le mani. C’era un milione di dollari posato sul sedile accanto al suo e Bacard lo voleva. La sua famiglia adesso possedeva una grande villa ad Alpine, i suoi figli frequentavano una scuola privata. Quindi lui non si tirò indietro, ma tenne gli occhi fissi sul parabrezza e ingranò la marcia.
Quando si fu allontanato, Lydia chiamò Pavel, che se ne stava nascosto dietro i cespugli, in fondo all’isolato. Pavel portava ancora la camicia a scacchi e camminava con passo stanco. Aveva i denti rovinati dalle troppe sigarette e dalla scarsa igiene, il naso schiacciato per le continue risse. Era insomma un essere della peggior specie, uno che nella vita ne aveva viste tante. Ma non gli importava.
«Tu» le disse, riempiendo di disprezzo quelle due lettere. «Tu no detto me.»
Aveva ragione, lei no detto lui. In altre parole, lui non sapeva nulla. Uno che si esprimeva in maniera così rudimentale era l’uomo perfetto per il loro piano. Pavel era arrivato due anni prima dal Kosovo, portandosi dietro una donna incinta. In occasione della prima consegna del riscatto aveva ricevuto istruzioni precise, gli era stato detto di attendere che una certa auto si fermasse al parcheggio, di avvicinarsi al guidatore senza dire una parola, di farsi dare una borsa e risalire poi sul furgone. E, per complicare ulteriormente la faccenda, gli avevano detto di fingere di parlare a un cellulare.
Tutto qui.
Pavel non aveva idea di chi fosse Marc Seidman. Non sapeva che cosa contenesse la borsa, era all’oscuro del sequestro, del riscatto, di tutto insomma. Non si era messo i guanti, dal momento che le sue impronte digitali non comparivano negli archivi criminali americani, e non aveva documenti d’identità.
Alla fine gli avevano dato duemila dollari e l’avevano rispedito in Kosovo. Sulla scorta della generica descrizione fornita da Seidman, la polizia aveva tracciato e messo in circolazione l’identikit di un uomo impossibile a tutti gli effetti da individuare. Quando la banda aveva poi deciso di chiedere nuovamente il riscatto, era stato automatico rivolgersi ancora a Pavel. Si sarebbe vestito come la prima volta, avrebbe avuto lo stesso aspetto e questa volta, se Seidman avesse reagito, gli avrebbe riempito la faccia di pugni.
Era un tipo pratico, Pavel, e si sarebbe adeguato. In Kosovo vendeva le ragazze; la tratta delle bianche sotto la copertura dei locali di spogliarello era particolarmente redditizia, anche se Bacard aveva escogitato un altro sistema per sfruttare le donne. E Pavel, abituato ai cambiamenti improvvisi, avrebbe fatto ciò che andava fatto. All’inizio aveva manifestato un’aperta ostilità, ma gli era passata non appena Lydia gli aveva messo in mano un pacco di banconote per un totale di cinquemila dollari. Lydia gli diede poi una pistola, lui sapeva usarla.
Pavel si era appostato accanto al vialetto, tenendo accesa la ricetrasmittente. Lydia chiamò Heshy, per dirgli che erano pronti. Quindici minuti dopo passò davanti a loro l’auto di Heshy, che lanciò dal finestrino la microspia. Lydia l’afferrò al volo e gli lanciò un bacio, poi s’infilò in tasca la microspia, si portò sul retro dell’edificio, estrasse la pistola e attese.
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