I fari dell’auto illuminarono i cespugli.
Vidi una camicia a scacchi.
Mi successe qualcosa. Come ho già detto, l’equilibrio mentale è una cordicella sottile e la mia si era già spezzata ma, in quel frangente, ero rimasto calmo. Questa volta invece mi sentii esplodere dentro come un ruggito di rabbia e paura. Premetti ancora di più sul pedale, quasi volessi conficcarlo nel pianale, e udii un grido di sorpresa. L’uomo con la camicia di flanella a scacchi tentò di saltare di lato.
Ma ero pronto.
Girai il volante verso di lui, come se ci trovassimo su un autoscontro. Vi fu uno schianto, ma il rumore risultò quasi attutito, e udii un grido. Il cespuglio s’impigliò nel paraurti. Cercai l’uomo con la camicia a scacchi.
Nulla. Avevo già la mano sulla maniglia, per aprire e corrergli dietro, ma Rachel mi bloccò. «No!»
Era viva!
Allungò una mano per inserire la marcia indietro. «Vai indietro!»
L’ascoltai. Non so prima a che cosa stessi pensando, quello era armato e io no. Nonostante l’impatto non avrei saputo dire se era morto, ferito o che cosa.
Feci marcia indietro. Notai che la via buia dove abitavo si era nel frattempo illuminata, spari e stridio di gomme non sono rumori abituali a Darby Terrace. La gente si era svegliata, aveva acceso la luce; in quel momento stavano sicuramente chiamando la polizia.
Rachel si raddrizzò sul sedile e io mi sentii immensamente sollevato. Aveva in mano una pistola e l’altra la teneva ancora premuta sulla ferita. «È l’orecchio» mi disse, e ancora una volta, per deformazione professionale, mi misi a pensare a come riparare il danno.
«Eccolo!» gridò.
Mi voltai di scatto. L’uomo dalla camicia a scacchi si trascinava lungo il vialetto, io girai la macchina per illuminarlo con i fari, ma quello scomparve dietro l’angolo. Guardai Rachel.
«Torna indietro, non sono sicura che sia solo.»
Eseguii. «E adesso?»
Lei si tolse la mano dalla ferita per portarla sulla maniglia dello sportello. «Rimani qui.»
«Sei matta?»
«Tieni il motore acceso e muoviti ogni tanto, facciamogli credere che siamo ancora in macchina. Io cerco di sorprenderli.»
E prima che potessi protestare era già scivolata fuori, con il sangue che le colava sul viso. Seguendo le sue istruzioni tenni il motore acceso e, sentendomi un perfetto idiota, avanzai con l’auto di un paio di metri per poi fare retromarcia.
Pochi secondi dopo Rachel scomparve alla mia vista.
Ancora qualche secondo e udii altri due spari.
Dal suo punto d’osservazione dietro la casa Lydia aveva seguito l’intera scena.
Pavel aveva sparato troppo presto, commettendo un errore. Nascosta dietro una catasta di legna, lei non era riuscita a vedere chi c’era nell’auto, ma quanto era successo l’aveva stupita: l’autista non solo aveva individuato Pavel, ma l’aveva anche ferito.
Pavel entrò nel suo campo visivo zoppicando, gli occhi di lei si erano così adattati all’oscurità che riusciva perfino a vedere il sangue che gli rigava il viso. Lydia sollevò un braccio, facendogli segno di avvicinarsi, lui cadde e cominciò a trascinarsi al suolo. La donna non perse d’occhio il retro della casa, ma l’auto sarebbe arrivata dalla strada di fronte. Dietro aveva una staccionata, in caso di fuga sarebbe passata dal cancelletto della villa alle sue spalle.
Pavel continuava a trascinarsi a terra e lei gli fece segno di sbrigarsi, continuando a tenere d’occhio la strada e chiedendosi che cosa avrebbe fatto quella ex federale. I vicini ormai si erano svegliati, cominciavano ad accendersi le luci, stava per arrivare la polizia.
Doveva sbrigarsi.
Pavel raggiunse la catasta di legna e rotolò accanto a lei, rimanendo per un momento sdraiato di schiena e respirando a fatica. Poi si mise in ginocchio accanto a Lydia, con gli occhi fissi nel buio. «Gamba rotta» disse con una smorfia di dolore.
«Ci penseremo dopo. Dov’è la tua pistola?»
«Sbarazzato.»
Impossibile risalire a loro dalla pistola, pensò lei, quindi nessun problema. «Ho un’altra arma da darti, tu continua a tenere d’occhio la strada» gli disse.
Lui annuì e con gli occhi cercò di penetrare l’oscurità.
«Allora?» disse Lydia, avvicinandosi.
«Non sicuro.»
Mentre Pavel continuava a tenere d’occhio la strada, lei gli poggiò la canna della pistola contro la parte morbida dietro l’orecchio sinistro e premette il grilletto, ficcandogli due proiettili nel cervello. L’uomo crollò al suolo come una marionetta alla quale abbiano tagliato i fili.
Poi rimase a osservarlo. Meglio così tutto sommato, pensò, il piano B era probabilmente migliore del piano A. Se Pavel avesse ucciso quella dorma, una ex agente federale, la polizia avrebbe intensificato le ricerche dell’uomo dalla camicia a scacchi e l’indagine sarebbe andata avanti per mesi. Così invece, con Pavel ucciso dalla stessa pistola usata un anno e mezzo prima nella sparatoria in casa Seidman, la polizia avrebbe concluso che dietro tutta la faccenda c’era proprio Seidman o quella Rachel o entrambi e li avrebbe arrestati. Le accuse non avrebbero retto a lungo, ma in ogni caso gli investigatori avrebbero smesso di cercare altri responsabili. E loro avrebbero potuto scomparire con i soldi.
Il caso era chiuso.
Lydia udì all’improvviso uno stridio di pneumatici e gettò la pistola nel giardino del vicino, evitando di lasciarla in vista sul posto, sarebbe sembrato troppo ovvio. Poi frugò in fretta nelle tasche di Pavel. C’era naturalmente il rotolo di banconote che lei gli aveva appena dato, e non lo prese: sarebbe stato un altro elemento che avrebbe avvalorato la messinscena.
Non aveva altro in tasca: non aveva portafogli, documenti d’identità, foglietti o altri elementi dai quali risalire a lei. Pavel aveva eseguito gli ordini. Altre finestre cominciavano a illuminarsi, le restava poco tempo. Si alzò in piedi.
«Polizia federale! Getta a terra la pistola!»
Maledizione! Una voce di donna. Lydia sparò nella direzione dalla quale le era sembrato che giungesse la voce e si lanciò al riparo dietro la catasta di legna mentre la federale rispondeva al fuoco. Lei era bloccata. E ora? Allungò un braccio alle sue spalle e sollevò il gancio del cancelletto del vicino.
«Va bene, mi arrendo!» gridò.
Poi saltò in piedi, puntando nel buio la semiautomatica e premendo il grilletto il più velocemente possibile. Le risuonò nelle orecchie il fischio dei proiettili, ma lei non capì se la donna stava rispondendo al fuoco. Probabilmente no. Ma non c’era tempo da perdere, il cancelletto era aperto e lei l’imboccò di corsa.
Corse per un centinaio di metri, Heshy l’attendeva nel giardino di una villetta e insieme, stando a capo chino, seguirono una specie di sentiero fiancheggiato da cespugli potati di recente. Era in gamba, Heshy: si preparava sempre al peggio. Aveva lasciato l’auto in un vicolo cieco due isolati più avanti.
«Stai bene?» le chiese, quando furono a distanza di sicurezza.
«Sì, orsacchiotto.» Lydia trasse un profondo respiro, chiuse gli occhi e si mise comoda sul sedile. «Proprio bene.»
Ma, arrivati all’autostrada, si chiese che fine avesse fatto il cellulare di Pavel.
La mia prima reazione era stata ovviamente di panico.
Aprii lo sportello per lanciarmi all’inseguimento, ma poi il cervello riprese il controllo delle operazioni e mi bloccò. Una cosa era il coraggio o anche la temerarietà, un’altra il suicidio. Non avevo una pistola, al contrario di Rachel e di chi le aveva sparato, e correre disarmato in suo soccorso sarebbe stato per lo meno inutile.
Ma non potevo restarmene lì a far niente.
Richiusi lo sportello e ancora una volta affondai il piede sul pedale dell’acceleratore. L’auto si tuffò in avanti. Sterzai nel giardinetto di casa mia, gli spari erano venuti dal retro e fu lì che puntai, facendo strage di cespugli e aiuole. Erano lì da talmente tanto tempo che mi fecero quasi pena.
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