I fari dell’auto danzavano nell’oscurità. Sterzai a destra, con l’intento di aggirare il grosso olmo ma dovetti rinunciare, era troppo vicino alla casa e l’auto non ce l’avrebbe fatta a passare. Ingranai la retromarcia e affondai nuovamente il piede sul pedale, con le ruote che facevano schizzare il terriccio umido del prato avendo difficoltà a fare presa. Invasi la proprietà dei Christie e investii il loro nuovo gazebo: Bill Christie si sarebbe incazzato a morte.
Ero sul retro, ora, e i fari illuminavano la staccionata dei Grossman. Sterzai a destra, vidi Rachel e inchiodai. Se ne stava accanto alla catasta di legna, che c’era già quando comprammo la casa, ma non l’avevamo mai usata e il legno ormai doveva essere marcio e pieno di tarli. I Grossman si erano lamentati, temendo che i tarli potessero attaccare anche la loro staccionata, e io avevo promesso che avrei fatto pulizia, senza però mantenere la promessa.
Rachel teneva la pistola puntata verso terra, l’uomo con la camicia a scacchi giaceva ai suoi piedi simile a un sacco d’immondizia. Non ebbi bisogno di abbassare un finestrino, quando ci avevano sparato contro il parabrezza si era sbriciolato. Tutto taceva. Rachel sollevò una mano, facendomi segno che non c’era pericolo. Uscii velocemente dall’auto.
«Gli hai sparato tu?» le chiesi, e mi sembrò una domanda retorica.
Era morto, e non serviva una laurea in Medicina per rendersene conto. La parte posteriore del cranio non c’era più e sulla legna si vedevano frammenti di materia cerebrale, bianco-rosea e coagulata. Non sono un esperto di balistica, ma a giudicare dall’effetto devastante doveva essersi trattato di un proiettile di grosso calibro, oppure esploso a bruciapelo.
«C’era qualcuno con lui» disse Rachel. «Gli hanno sparato e poi sono scappati.»
Abbassai gli occhi sul morto, sentendomi nuovamente ribollire di rabbia. «Chi è?»
«Gli ho frugato nelle tasche, c’è un rotolo di banconote ma niente documenti.»
Avrei voluto prenderlo a calci, scuoterlo per chiedergli che cosa avesse fatto a mia figlia. Lo guardai in viso, rovinato ma bello, chiedendomi che cosa avesse portato quell’uomo in quel posto, perché le nostre vite si fossero incrociate. E fu allora che notai qualcosa di strano.
Piegai il capo di lato.
«Che c’è, Marc?»
Mi accovacciai a guardare da vicino. Non mi facevano certo impressione la materia cerebrale, le schegge d’osso o i tessuti rossi di sangue, avevo visto traumi peggiori. Esaminai il naso dello sconosciuto ridotto in pratica a un ammasso di stucco: l’avevo già notato la volta precedente. Un pugile, pensai, o uno che aveva avuto un’esistenza particolarmente dura. Aveva il capo piegato in un’angolatura insolita, la bocca era spalancata. Era stata proprio quest’ultima ad attirare la mia attenzione.
Infilai le dita tra mascella e palato e cercai di aprirla ancora di più.
«Che diavolo stai facendo?» mi chiese Rachel.
«Hai una torcia elettrica?»
«No.»
Ma non aveva importanza. Gli sollevai il capo, girai la bocca verso l’auto e alla luce dei fari riuscii a vedere chiaramente.
«Marc?»
«Mi ero chiesto come mai si fosse presentato a viso scoperto.» Chinai il capo verso la sua bocca, cercando di non farmi ombra. «Avevano preso mille precauzioni per non farsi identificare, alterando la voce al telefono, applicando alla fiancata del camioncino un’insegna rubata, fondendo insieme due mezze targhe. E questo invece si lasciava vedere in faccia.»
«Di che stai parlando?»
«La prima volta che l’ho visto ho pensato che si fosse camuffato, e la cosa avrebbe avuto una sua logica. Ma ora sappiamo che non era così: perché allora non si è coperto la faccia?»
Si sorprese nel vedermi prendere l’iniziativa, ma lo stupore durò poco e Rachel cercò di seguire il mio ragionamento. «Perché non aveva precedenti penali.»
«Forse. Oppure…»
«Oppure che cosa, Marc? Non abbiamo molto tempo.»
«I denti.»
«In che senso, i denti?»
«Guarda i molari. Le capsule sono di alluminio.»
«Sono di che cosa?»
Sollevai il capo. «Guarda il molare superiore destro e la cuspide superiore sinistra. Noi adoperiamo capsule d’oro, sebbene oggi si usi molto anche la porcellana: il dentista ti prende l’impronta in modo da farti un lavoro il più preciso possibile. Queste invece sono capsule di alluminio, e non sono certo fatte su misura. Si mettono sui denti e si fissano con le pinze. All’estero ho partecipato a un paio di interventi ricostruttivi, e di bocche con dentro quella roba ne ho viste diverse. Le chiamano “barattoli di latta” e qui negli Stati Uniti non le usano, a parte forse in via provvisoria.»
Poggiò un ginocchio a terra accanto a me. «È straniero?»
«Direi dell’ex blocco sovietico, roba del genere. Probabilmente viene dai Balcani.»
«Avrebbe un senso. Nei nostri archivi e nei nostri computer non ci sarebbe traccia delle sue impronte digitali o dei dati somatici. La polizia impiegherebbe una vita per identificarlo, a meno che non li aiuti qualcuno.»
«Cosa che probabilmente non accadrà.»
«Mio Dio, per questo l’hanno ucciso, perché sanno che non potremo identificarlo.»
Udimmo il suono delle sirene che si avvicinavano, ci guardammo.
«Devi prendere una decisione, Marc. Se rimaniamo qui finiamo in carcere; quelli penseranno che l’abbiamo ucciso perché era un nostro complice e secondo me i rapitori lo sapevano. I vicini dichiareranno che era tutto tranquillo finché siamo arrivati noi, e che da quel momento hanno udito stridio di pneumatici e colpi di pistola. Alla fine riusciremo comunque a spiegare tutto…»
«Ma ci vorrà del tempo» dissi.
«Sì.»
«E anche se abbiamo fatto dei passi avanti, se passerà troppo tempo sarà stato tutto inutile. La polizia si muoverà a modo suo e anche se deciderà di aiutarci, anche se ci crederà, farà troppo rumore.»
«C’è un’altra cosa» osservò lei.
«Cioè?»
«I rapitori ci hanno teso una trappola, sapevano della microspia.»
«Questo l’avevamo immaginato.»
«Ora però, Marc, mi chiedo come hanno fatto a scoprirla.»
Pensai alla parte del messaggio in cui dicevano di avere un informatore all’interno della polizia. «C’è stata una soffiata?»
«A questo punto non l’escluderei.»
Scattammo entrambi verso l’auto. Appoggiai una mano sul braccio di Rachel, lei sanguinava ancora e aveva l’occhio talmente gonfio che le palpebre si erano quasi chiuse. La guardai e di nuovo in me ebbe il sopravvento qualcosa d’istintivo: il bisogno di proteggerla. «Se scappiamo ci crederanno colpevoli» le dissi. «A me non importa, non ho nulla da perdere. Ma tu?»
«Anch’io non ho nulla da perdere» rispose tranquilla.
«Hai bisogno di un dottore.»
Lei abbozzò un sorriso. «Tu non sei un dottore?»
«Anche questo è vero.»
Non avevamo tempo di vagliare tutti i pro e i contro, dovevamo muoverci. Salimmo in auto, e facendo un ampio giro tornammo indietro passando da Woodland Road. Nella mia mente cominciavano a farsi strada dei pensieri, pensieri chiari, razionali. E, quando considerai dove ci trovavamo e ciò che stavamo facendo, la realtà mi schiacciò al punto da farmi venire voglia di fermare l’auto.
Rachel se ne accorse.
«Che c’è?» mi chiese.
«Perché stiamo correndo?»
«Non capisco.»
«Speravamo di trovare mia figlia o, quanto meno, chi l’ha rapita. Avevamo detto che c’era una piccola possibilità.»
«Sì.»
«Ma non capisci? Questa possibilità, anche ammesso che vi fosse, ora non c’è più. Quel tipo è morto. Sappiamo che era straniero, e allora? Non sappiamo chi era, siamo in un vicolo cieco e non abbiamo alcuna traccia da seguire.»
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