Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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L’aria della notte si stava trasformando in rugiada e Lydia cominciava ad avvertire nelle vene quel particolare formicolio indotto dall’emozione. Sapeva che Heshy non era distante, lui avrebbe voluto esserle al fianco, ma quella partita lei voleva giocarsela da sola. La strada era immersa nel silenzio, erano le quattro del mattino.

Cinque minuti dopo Lydia udì avvicinarsi l’auto.

33

Qualcosa non andava, proprio non andava.

Le strade si facevano via via più familiari e non le notavo quasi. Ero nervosissimo, eccitato, il dolore alle costole sembrava scomparso. Rachel era assorbita dal suo palmare, continuava ad armeggiare con lo stilo, piegava la testa da una parte per leggere meglio. Allungò una mano sul sedile posteriore e prese l’atlante mondiale di Zia. Poi, tenendo fra i denti lo stilo, cominciò a tracciare il nostro itinerario cercando forse di capirci qualcosa. Magari però, stava solo prendendo tempo, per evitare che le facessi un’inevitabile domanda.

La chiamai, piano. Lei mi guardò battendo le ciglia, poi riportò lo sguardo sulla carta stradale.

«Sapevi del CD-ROM prima di venire qui?» le chiesi.

«No.»

«Conteneva delle foto di te davanti all’ospedale dove lavoro.»

«Me l’hai detto.»

Puntò nuovamente lo stilo sul palmare.

«Sono vere quelle foto?»

«Vere?»

«Voglio dire, sono state alterate al computer, roba del genere… oppure eri proprio tu davanti a quell’ospedale due anni fa?»

Rachel rimase a capo chino ma con la coda dell’occhio notai che teneva le spalle curve. «Gira a destra» mi disse. «Lassù.»

Eravamo in Glen Avenue e la faccenda mi intrigava sempre più perché più in su, a sinistra, c’era il mio vecchio liceo. L’avevano ristrutturato quattro anni prima, aggiungendovi una piscina e una seconda palestra. La facciata era stata volutamente invecchiata, anche con l’aggiunta di rampicanti, conferendo all’edificio un aspetto austero, quasi a voler ricordare ai ragazzi di Kasselton ciò che i genitori si attendevano da loro.

«Rachel?»

«Quelle foto sono autentiche, Marc.»

La cosa non mi stupì, non so perché, forse cercavo di prendere tempo con me stesso. Mi stavo avventurando in acque pericolosissime, sapevo che le risposte avrebbero modificato nuovamente la situazione, avrebbero mandato tutto a gambe all’aria proprio quando speravo di rimettermi in carreggiata. «Credo di avere diritto a una spiegazione» dissi.

«Certo.» Chinò il capo sullo schermo del palmare. «Ma non adesso.»

«Proprio adesso, invece.»

«Dobbiamo concentrarci su ciò che ci aspetta.»

«Non mi sfottere, ti prego. Sto solo guidando e riesco a fare due cose contemporaneamente.»

«Io forse no» disse lei sottovoce.

«Che ci facevi davanti a quell’ospedale, Rachel?»

«Rallenta!»

«Perché?»

Eravamo in vista dei semafori di Kasselton Avenue, che a quell’ora di notte lampeggiavano. Mi voltai perplesso verso di lei. «Da che parte vado?»

«A destra.»

Mi si gelò il sangue nelle vene. «Non capisco.»

«L’auto si è fermata di nuovo.»

«Dove?»

Rachel finalmente sollevò gli occhi e incrociò il mio sguardo. «A meno che non stia leggendo male il segnale, sono a casa tua.»

Svoltai a destra, non avevo più bisogno delle indicazioni di Rachel, che teneva gli occhi fissi sul palmare. Eravamo a poco più di un chilometro di distanza, ormai. I miei genitori avevano percorso questa strada per andare in ospedale, il giorno in cui ero nato, e mi chiesi quante volte da quel giorno l’avessi percorsa io. Strano pensiero, ma la mente sa dove deve andare.

Girai a destra sulla Monroe, la casa dei miei era sulla sinistra. Le luci erano spente, tranne ovviamente quella del piano inferiore, regolata da un timer che l’accendeva alle sette del pomeriggio e la spegneva alle cinque del mattino. La lampadina era una di quelle a lunga durata e risparmio d’energia, che somigliano a uno sbaffo di gelato. Mamma si vantava della loro durata. Aveva letto da qualche parte che un altro efficace sistema per tenere i ladri alla larga era quello di lasciare la radio accesa, e il suo vecchio apparecchio era costantemente sintonizzato su una di quelle stazioni che trasmettono chiacchiere in continuazione. Ma purtroppo la radio di notte la teneva sveglia, e ora lei la regolava a un volume così basso che un ladro avrebbe dovuto premere l’orecchio contro l’apparecchio per convincersi a stare alla larga da casa nostra.

Stavo per svoltare in Darby Terrace quando Rachel mi disse di rallentare.

«Si stanno muovendo?» le chiesi.

«No, il segnale continua a venire da casa tua.»

Guardai in fondo all’isolato e cominciai a riflettere. «Per arrivare qui hanno seguito un percorso complicato» dissi poi.

«Lo so.»

«Forse hanno trovato la tua microspia.»

«È proprio quello che stavo pensando.»

L’auto si mosse lentamente. Eravamo davanti alla casa dei Citron, due prima della mia. Non si vedeva alcuna luce. Rachel si mordicchiò il labbro inferiore. Ora ci trovavamo davanti alla casa dei Kadison, appena prima della mia. Era tutto “troppo tranquillo”, come si suol dire, come se il mondo si fosse congelato, come se tutto ciò che si vede, perfino le cose animate, si stesse sforzando di rimanere in silenzio e immobile.

«Deve essere una trappola» disse.

Stavo per chiederle che cosa fare, se cioè fare marcia indietro oppure scendere e andare a piedi o ancora chiamare la polizia, quando la prima pallottola mandò in frantumi il parabrezza e mi sentii il viso frustato dai frammenti di vetro. Udii un breve grido. Senza riflettere razionalmente chinai il capo e alzai un braccio. Poi abbassai lo sguardo e vidi del sangue.

«Rachel!»

La seconda pallottola mi sibilò così vicina alla testa da sfiorarmi i capelli e si conficcò nel sedile con un rumore sordo. L’istinto prese di nuovo il sopravvento, ma questa volta avevo una missione, una vaga indicazione. Premetti sull’acceleratore e l’auto sembrò tuffarsi in avanti.

Il cervello umano è uno strumento stupefacente che nessun computer può eguagliare, è in grado in qualche centesimo di secondo di elaborare milioni di stimoli. Ed era probabilmente ciò che in quel momento stava facendo il mio. Ero chino al posto di guida e qualcuno mi stava sparando. D’istinto il mio cervello avrebbe voluto darsi alla fuga, ma qualcosa lungo il percorso evolutivo realizzò che forse forse ci sarebbe potuta essere una mossa migliore.

Il processo mentale si svolse, secondo una mia stima approssimativa, in meno di un decimo di secondo. Avevo il piede sull’acceleratore, le gomme fischiavano. Pensai a casa mia, al suo aspetto familiare, al punto da cui provenivano le pallottole. Sì, lo so che cosa state pensando. Forse il panico accelera le funzioni cerebrali, non so, ma realizzai che se a sparare fossi stato io e avessi atteso l’arrivo dell’auto, mi sarei nascosto dietro i cespugli che dividono il nostro giardino da quello dei nostri vicini, i Christie. Questi cespugli sono grossi e rigogliosi. Se avessi imboccato il vialetto, l’omicida avrebbe potuto farci fuori colpendo dalla parte del passeggero. Ma, dopo la mia esitazione, temette che facessi marcia indietro; era ancora in una buona posizione, anche se non proprio ideale, per spararci di fronte.

Quindi sterzai e puntai decisamente contro i cespugli.

Fu esploso un terzo colpo che, a giudicare dal suono, doveva avere colpito qualcosa di metallico come il radiatore. Lanciai una rapidissima occhiata a Rachel, una specie di istantanea visiva: si stava premendo una mano contro un lato del capo, che teneva basso, e tra le dita le colava del sangue. Mi sentii mancare, ma tenni l’acceleratore premuto muovendo la testa avanti e indietro, come se avessi potuto in tal modo disturbare la mira di chi stava sparando.

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