«Dov’è?» le chiesi.
«In cantina. Per prenderlo devi salire in piedi sull’asciugatrice, si trova dietro la tubatura nella parte più stretta.» Dette un’occhiata all’orologio, poi mi guardò e si serrò le braccia attorno al torace. «Si sta facendo tardi.»
«Stai bene?»
I suoi occhi ripresero a lanciare rapidi sguardi a destra e a sinistra. Il respiro le si fece d’improvviso irregolare. «Non so quanto riuscirò ancora a resistere qui dentro.»
«Vuoi cercare il tuo diario?»
«Non lo so.»
«Vuoi che lo trovi io?»
Scosse decisamente il capo. «No.» Si alzò, respirando a bocca spalancata. «Ora è meglio che me ne vada.»
«Puoi sempre tornare, Dina. Quando vuoi.»
Ma non mi ascoltava. Era in panico e si diresse alla porta.
«Dina.»
Si voltò di scatto. «L’amavi?»
«Che cosa?»
«Monica. L’amavi? O c’era qualcun’altra?»
«Ma di che stai parlando?»
Era sbiancata in viso. Lei ora mi fissava indietreggiando, come pietrificata. «Lo sai chi ti ha sparato, vero, Marc?»
Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono. E quando ritrovai la voce Dina si era voltata nuovamente.
«Devo andarmene, mi dispiace.»
«Aspetta.»
Spalancò la porta è uscì di corsa. Io rimasi accanto alla finestra e la vidi dirigersi a passo veloce verso Phelps Road. Questa volta però preferii non seguirla.
Invece mi voltai, mentre mi risuonavano nelle orecchie quelle parole: “Lo sai chi ti ha sparato, vero, Marc?” e corsi alla porta della cantina.
Ora lasciatemi spiegare una cosa. Non stavo scendendo in quel tetro e incompleto sottoscala per invadere la privacy di Dina. Non fingevo di sapere che cos’era meglio per lei, che cos’avrebbe lenito le sue terribili sofferenze. Molti miei colleghi psichiatri dissentirebbero, ma a volte mi chiedo se non convenga lasciare sepolto il passato. Non so rispondermi, ovviamente: e, come quegli stessi colleghi psichiatri mi farebbero notare, io non chiedo loro consiglio sul metodo migliore per intervenire su un palato leporino. Alla fin fine, quindi, so soltanto che non tocca a me decidere per conto di Dina.
Né stavo scendendo in cantina perché era curioso del suo passato. Non avevo alcun interesse a leggere i particolari dei tormenti di Dina. Anzi, desideravo ardentemente non conoscerli. Per dirla tutta, mi aveva già fatto venire la pelle d’oca sapere che erano state commesse certe nefandezze in quel posto che chiamo casa. Di altre ne avevo già fatto le spese, grazie tante, e non volevo leggerne o ascoltarne ancora.
Che cosa stavo cercando, allora?
Girai l’interruttore della luce e si accese una lampadina nuda. Scendendo le scale mettevo insieme i vari pezzi. Dina aveva detto diverse cose singolari e, lasciando per il momento da parte le più serie, cominciai a dedicarmi a quelle più sfumate. Quella notte avevo agito sempre d’istinto, senza rifletterci troppo sopra, così decisi di non invertire la tendenza.
Mi ricordai anzitutto del passo che Dina aveva mosso verso la porta, quando era ancora la donna misteriosa. Ora so, perché me lo disse lei stessa, che aveva cercato il coraggio per bussare di nuovo a quella porta.
“Di nuovo.”
Bussare “di nuovo” a quella porta.
La conclusione più logica era che Dina, in almeno un’altra occasione, quel coraggio l’aveva trovato.
In secondo luogo, mi aveva detto di avere “incontrato” Monica. E non riuscivo a immaginare in quale circostanza. Certo, anche Monica era cresciuta in quella città ma, per quanto sapevo di lei, frequentava ben altri ambienti. La tenuta dei Portman si trovava all’estremità opposta della nostra caotica periferia urbana. Monica era andata in collegio in età giovanissima e nessuno in città la conosceva. Mi ricordo di averla vista una volta al cinema Colony, avevo terminato il secondo anno delle superiori ed era estate. L’avevo fissata e lei mi aveva ostentatamente ignorato. Monica aveva fin da allora quel tipo di bellezza distante e inavvicinabile. Quando qualche anno dopo la rividi, e fu lei per la verità a cercarmi, ne fui tanto lusingato che mi girava la testa. Da lontano Monica sembrava così favolosa.
E allora, mi stavo chiedendo, come aveva fatto la mia ricca, distante e bella moglie a conoscere la povera e grigia Dina Levinsky? La risposta più logica, considerando quel “di nuovo”, era che Dina aveva bussato alla porta e Monica l’aveva aperta. Si erano incontrate in quella circostanza. Probabilmente si erano parlate e Dina forse aveva detto a Monica del diario nascosto.
“Lo sai chi ti ha sparato, vero, Marc?”
No, Dina. Ma ho intenzione di scoprirlo.
Ero arrivato in cantina, sul pavimento di cemento erano accatastati un po’ dappertutto scatoloni che non avrei mai gettato via né mai avrei aperto. Notai, forse per la prima volta, delle macchie di colore sul pavimento, mille tonalità cromatiche. Forse erano lì dai tempi di Dina, testimonianza della sua unica valvola di sfogo.
Lavatrice e asciugatrice erano nell’angolo a sinistra e mi avvicinai lentamente, in quella luce cupa. Camminavo letteralmente in punta di piedi, come se temessi di svegliare il “can che dorme” di Dina. Sciocco da parte mia, davvero. Non sono superstizioso, come ho già detto, e se lo fossi, se credessi negli spiriti del male e affini, non avrei alcun motivo e alcun timore di farli incazzare. Mia moglie era morta, mia figlia scomparsa: che altro avrebbero potuto farmi? Dovrei anzi provocarli, attivarli, nella speranza che mi facciano sapere che cos’è successo esattamente alla mia famiglia, a Tara.
Eccoci di nuovo. Tara. Tutto alla fine mi riportava a lei. Non so come e perché c’entrasse la mia bambina, non so che nesso ci fosse tra il suo rapimento e Dina Levinsky. Con tutta probabilità questo nesso non c’era, ma non avevo alcuna intenzione di tornare indietro.
Perché, sapete, Monica non mi aveva mai detto di avere conosciuto Dina Levinsky.
E la cosa mi sembrava strana. È vero, è una teoria ridicola che sto costruendo sulla sabbia. Ma se Dina avesse effettivamente bussato alla mia porta di casa, se Monica le avesse effettivamente aperto, ci sarebbe da pensare che una volta o l’altra mia moglie me ne avrebbe parlato. Sapeva che io e Dina eravamo stati compagni di scuola: perché allora tenere segreta quella visita, o in ogni caso il loro incontro?
Mi arrampicai sull’asciugatrice e fui costretto ad accovacciarmi, con gli occhi rivolti al soffitto. Era il regno della polvere, c’erano ragnatele dappertutto. Trovai le condutture e allungai il braccio, cercando poi a tentoni. Era difficile, c’era un intrico di tubi e io non riuscivo a infilarci il braccio. L’operazione sarebbe stata molto più semplice per un’adolescente dalle braccia sottili.
Riuscii alla fine a mettere una mano tra un tubo di rame e l’altro, quindi feci scivolare le dita a destra e spinsi verso l’alto. Niente. Strisciai la mano per alcuni centimetri e spinsi di nuovo. Qualcosa cedette.
Mi tirai su la manica e infilai il braccio per qualche altro centimetro. Sentii due tubi premermi contro la pelle, ma erano abbastanza flessibili da permettermi di raggiungere lo spazio vuoto dietro di loro. Tastai alla cieca, trovai qualcosa e lo tirai fuori.
Il diario.
Era il classico quaderno di scuola con la caratteristica copertina nera marmorizzata. L’aprii e sfogliai qualche pagina. La grafia era minuta, mi ricordò quella di quel tipo che al centro commerciale scriveva i nomi sui chicchi di riso. L’immacolata scrittura di Dina — immacolata al contrario del contenuto, immagino — cominciava proprio all’inizio del foglio e arrivava alla fine occupando anche i margini ai due lati. Aveva riempito tutte le pagine.
Non lo lessi perché, ripeto, non era questo il motivo per il quale avevo cercato quel diario. Allungai nuovamente il braccio e rimisi il quaderno dove l’avevo preso. Non so come e se questo gesto avrebbe provocato una reazione degli dèi, se cioè il solo toccare quel diario sarebbe stato sufficiente a scatenare una reazione come per esempio la maledizione di Tutankhamon, ma come ho detto non me ne importava granché.
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