Certo, amava guardare le case suburbane a livelli sfalsati degli anni Settanta. Ma se le sue intenzioni erano assolutamente innocenti, perché era fuggita?
Non lo so, Marc. Ma non è possibile che l’abbia fatto — è solo un’ipotesi a caso, ovvio — perché c’era un matto che la inseguiva?
Allontanai quella voce e mi rimisi a correre in cerca di non so che. Ma passando davanti a casa degli Zucker mi fermai.
Era mai possibile?
La donna era svanita nel nulla. Avevo controllato le strade alle due estremità e lei non c’era. Il che voleva dire: a) che abitava in una di quelle case, oppure b) che si era nascosta.
O ancora c) che aveva imboccato il sentiero degli Zucker che attraversava il boschetto.
Da ragazzino a volte passavo con gli amici per il prato dietro casa Zucker, dal quale partiva un sentiero che portava ai campi sportivi della scuola. Non era facile trovarlo, quel sentiero, e alla Vecchia Signora Zucker non faceva piacere che attraversassimo il suo prato. Non ci diceva niente, ma ogni volta la vedevamo dietro la finestra a fissarci torva, con quella sua acconciatura lucida come un dolce Krispy Kreme. Tanto che dopo qualche tempo smettemmo di usare quella scorciatoia.
Guardai a destra e a sinistra. Della donna non si vedeva traccia.
Possibile che conoscesse l’esistenza di quel sentiero?
Mi rimisi a correre attraversando nel buio il prato dietro casa Zucker. Mi aspettavo quasi di vedere al di là dei vetri della finestra lo sguardo torvo della Vecchia Signora Zucker, ma da qualche anno si era trasferita a Scottsdale. Non sapevo più chi abitava in quella casa, non sapevo nemmeno se il sentiero esisteva ancora.
Il prato era buio come la pece, nemmeno una luce brillava in casa. Cercai di ricordarmi con esattezza dove si trovava il sentiero. Ma non impiegai molto a trovarlo, certe cose si ricordano, è quasi automatico. Corsi alla sua imboccatura quando qualcosa mi colpì al capo, con un rumore secco. Caddi sulla schiena.
Mi girava la testa. Sollevai lo sguardo. Al debole chiarore della luna vidi un’altalena, una di quelle belle, di legno. Quando ero bambino non c’era quell’altalena, e al buio non l’avevo vista. Mi girava la testa, ma non potevo permettermi di perdere tempo. Mi risollevai troppo in fretta, tanto da barcollare indietreggiando.
Il sentiero c’era ancora.
Lo percorsi più velocemente che potei. I ramoscelli mi schiaffeggiavano il viso, ma non ci feci caso. Inciampai su una radice. Non era lungo il sentiero degli Zucker, una dozzina di metri, quindici al massimo. Sfociava in una spianata occupata da campi di calcio e diamanti da baseball. Ero stato piuttosto veloce. Se anche lei aveva percorso il sentiero avrei dovuto vederla in quello spazio aperto.
Notai quella specie di nebbiolina attorno alle luci al neon del parcheggio. Arrivai sempre correndo nella spianata e mi guardai velocemente attorno. Vidi diverse porte da calcio e la rete metallica dietro la postazione del ricevitore.
Ma nessuna donna.
Maledizione.
L’avevo persa. Ancora una volta. Maledizione. Avevo il morale a terra. Non so. Voglio dire, a pensarci bene, a che scopo? Quella faccenda era una stupidaggine, davvero. Abbassai lo sguardo sui piedi, che mi facevano un male da cani. Sotto quello destro avvertii qualcosa che doveva essere un rivolo di sangue. Mi sentivo un idiota. Un idiota sconfitto, se vogliamo dirla tutta. Feci per voltarmi…
Aspetta un momento.
In lontananza, sotto le luci del parcheggio, c’era un’auto. Isolata, per conto suo. Annuii seguendo il filo dei miei pensieri. Diciamo che quell’auto apparteneva a una donna. Perché no? In caso contrario, be’, nulla di perso e nulla di guadagnato. Ma se era così, se la sconosciuta aveva parcheggiato là, allora la cosa cominciava ad avere un senso. Lei parcheggia, attraversa il boschetto e va a mettersi di fronte a casa mia. Perché avrebbe dovuto fare tutto questo non riuscivo a immaginarlo. Ma per il momento decisi di regolarmi di conseguenza.
Allora, se le cose stavano così, se quella cioè era la sua auto, dovevo concludere che lei non se n’era ancora andata via. A me non la si fa. Che cos’era successo, quindi? Lei si accorge di essere stata vista, si mette a correre, imbocca il sentiero in senso opposto…
… e si rende conto che potrei seguirla.
Stavo quasi per schioccare le dita. La donna del mistero doveva sapere che ero cresciuto in zona e che quindi potevo ricordarmi del sentiero. In tal caso, se avessi previsto (come in effetti avevo fatto) che lei sarebbe passata di lì, l’avrei sorpresa nel piazzale. Lei allora in che modo avrebbe reagito?
Ci pensai su e la risposta giunse abbastanza in fretta.
Si sarebbe nascosta tra la vegetazione ai due lati del sentiero.
La donna misteriosa probabilmente in quel momento mi stava osservando.
Lo so bene che un ragionamento del genere poteva a malapena considerarsi un’esile congettura: ma sembrava giusto, giustissimo. Che fare, allora? Presi un respiro profondo e dissi ad alta voce: «Maledizione!». Poi incurvai le spalle come se mi fossi sgonfiato, cercando comunque di non esagerare, e mi trascinai stancamente lungo il sentiero in direzione di casa Zucker, a capo chino ma lanciando occhiate a destra e a sinistra. Camminai con cautela, con le orecchie tese a cogliere anche il minimo fruscio.
Ma la notte rimaneva silenziosa.
Al termine del sentiero continuai a camminare come per tornare a casa ma, quando l’oscurità tornò ad avvolgermi, mi buttai a terra e strisciando sotto l’altalena come un incursore tornai all’imboccatura del sentiero. E lì mi fermai in attesa.
Non so quanto tempo passò. Non più di due o tre minuti, forse. Stavo quasi per andarmene quando udii il rumore. Ero immobile, bocconi ma con il capo sollevato. La sagoma si sollevò dirigendosi verso il sentiero. Mi alzai in piedi, cercando di non fare rumore, ma era praticamente impossibile. La donna si voltò di scatto verso il punto da cui era venuto il rumore e mi vide.
«Aspetta» le gridai. «Voglio solo parlarti.»
Ma lei si era già messa a correre in direzione del boschetto, dove la vegetazione era particolarmente fitta e regnava l’oscurità. L’avrei potuta perdere di vista con facilità, e non volevo correre di nuovo quel rischio. Forse non l’avrei scorta, ma certo l’avrei sentita.
Mi lanciai in mezzo al boschetto e andai quasi subito a sbattere contro un albero. Vidi le stelle. Che mossa idiota era stata, ragazzi! Mi fermai ad ascoltare.
Silenzio.
Si era fermata, per nascondersi un’altra volta. E adesso?
Doveva essere vicina. Cercai di prendere una decisione, ma ci rinunciai subito. E mi tuffai nel punto dal quale mi era arrivato il rumore, a braccia e gambe spalancate per coprire il maggior spazio possibile. Atterrai su un cespuglio.
Ma con la mano sinistra toccai qualcos’altro.
Lei cercò di divincolarsi ma le mie dita si serrarono attorno alla sua caviglia. Con l’altra gamba la donna provò a scalciare ma io non mollai la presa, come un cane che serra le mandibole su un osso.
«Lasciami!» gridò.
Non riconobbi la voce, ma non le lasciai la caviglia.
«Ma cosa… Lasciami!»
No. Mi puntellai come potei al suolo e la tirai verso di me. Il buio era ancora fitto, ma i miei occhi cominciavano ad abituarsi all’oscurità. Detti un altro strattone e lei si girò sulla schiena. Ormai eravamo abbastanza vicini l’uno all’altra e finalmente avrei potuto guardarla in viso.
Impiegai qualche secondo per registrare quell’immagine. Il ricordo risaliva a tanto tempo prima, anzitutto. Il viso, o almeno la parte del viso che riuscivo a vedere, era cambiato. Sembrava diversa. Ma l’avevo riconosciuta dal modo in cui i capelli le erano caduti sul viso durante la colluttazione. Mi era quasi più familiare dei lineamenti della donna, quel particolare, quella vulnerabilità della posa che aveva assunto, il suo modo di evitare di incrociare i nostri sguardi. E com’è naturale, abitando la donna in quella casa che avevo sempre automaticamente associato a lei, la sua immagine era rimasta nelle primissime posizioni del mio archivio mnemonico.
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