Che successe, allora?
La nostra storia non finì diversamente da tante altre. Forse perché eravamo giovani. Durante il mio quarto e ultimo anno Rachel decise che voleva passare uno dei due semestri del college a Firenze. Avevo ventidue anni. Mi incazzai e, mentre lei era in Italia, andai a letto con un’altra, una storia di una notte con una scialba studentessa della Babson. Per me non ebbe alcun significato: capisco che questo particolare non costituisce un’attenuante, ma invece dovrebbe. Non so.
Comunque sia, a una festa qualcuno ne parlò a qualcun altro e alla fine la notizia arrivò a Rachel. Lei mi chiamò da Firenze e mise la parola fine alla nostra storia, in quattro e quattr’otto: una reazione eccessiva la sua, a mio modo di vedere. Eravamo giovani, come dicevo. All’inizio fui troppo orgoglioso (leggi: stupido) per chiederle di ripensarci e perdonarmi. Poi, quando cominciai a scontare le conseguenze di quella rottura, le telefonai, le scrissi, le mandai dei fiori. Rachel non rispose mai. Era finita, punto e basta.
Mi alzai e mi avvicinai semibarcollando alla scrivania. Presi da sotto la credenza la chiave che avevo assicurato con del nastro adesivo e aprii l’ultimo cassetto. Tirai fuori i vari incartamenti, sotto i quali avevo conservato del materiale segreto. No, non droga. Il passato. Le cose di Rachel. Trovai quella foto tanto familiare che cercavo e la esposi alla luce. Lenny e Cheryl hanno ancora questa foto nel tinello e la cosa aveva comprensibilmente infastidito Monica. Eravamo noi quattro — Lenny, Cheryl, Rachel e io — ripresi in una serata di gala durante il mio ultimo anno di college. Rachel indossava un abito nero con bretelline simili a spaghetti e ancora oggi il pensiero di come quell’abito le aderiva al corpo mi fa mancare il respiro.
È stato tanto tempo fa.
Dopo la fine della nostra relazione la vita andò avanti ugualmente, com’è ovvio. Come avevo da tempo pianificato, mi iscrissi alla facoltà di Medicina. Avevo sempre desiderato fare il medico, come d’altronde moltissimi medici che conosco. Una decisione del genere è raro che la si prenda al termine delle superiori.
E uscivo anche con le ragazze. Ebbi altre storie di una notte, come quella di Zia: ma, anche se può sembrarvi penoso, dopo tanti anni non passa giorno che io non pensi a Rachel, anche solo per un attimo. Sì, lo so che la sto buttando troppo sul romantico perdendo forse il senso della misura. Se non avessi commesso quell’errore idiota forse ora non vivrei in un beato universo alternativo, ancora avvinghiato al mio amato bene sul divano. Come Lenny mi fece notare una volta in un momento di assoluta sincerità, se la mia relazione con Rachel fosse stata davvero così importante lei sarebbe passata sopra a questo “incidente” che capita in ogni storia, alle corna di una notte.
Ve l’ho detto che non ho mai amato mia moglie? No. Credo, quanto meno, che la risposta sia no. Monica era bella, e la sua bellezza ti colpiva subito senza che per accorgertene dovesse passare del tempo, oltre che appassionata e sorprendente. Era anche ricca e affascinante. Cercavo di non fare paragoni, è terribile vivere facendo paragoni, ma non potevo non amare Monica nel mio mondo post-Rachel più angusto e meno luminoso. Magari sarebbe accaduta la stessa cosa se fossi rimasto con Rachel, ma avrebbe significato usare la logica: e quando c’è di mezzo il cuore, la logica non ha diritto di cittadinanza.
Con il passare degli anni Cheryl mi teneva informato, anche se controvoglia, su Rachel. Venni così a sapere che era diventata un’agente dell’FBI a Washington e non so se la notizia mi sorprese davvero. Tre anni fa Cheryl mi disse che Rachel si era sposata con un collega anziano. E, anche se erano ormai trascorsi undici anni dalla nostra rottura, fu come se qualcuno mi avesse scavato nelle viscere. In quel momento realizzai appieno quale fesseria avessi commesso undici anni prima. Ero vissuto fino ad allora nell’irrazionale convinzione che Rachel e io stessimo solo facendo passare del tempo, che vivessimo in uno stato di incoscienza, fino al giorno in cui avremmo ripreso i sensi e ci saremmo rimessi insieme. E ora lei aveva sposato un altro.
Cheryl notò la mia espressione e da quel giorno non mi parlò più di Rachel.
Rimasi a guardare la foto fin quando udii il rumore familiare di un fuoristrada che si fermava davanti a casa mia. Nessuna sorpresa, non mi preoccupai nemmeno di andare ad aprire. Lenny aveva la chiave e comunque non bussava mai, sapeva dov’ero. Misi via la foto mentre lui entrava con in mano due enormi bicchieroni di cartone di 7-Eleven dai colori vivaci.
Li soEevò entrambi. «Ciliegia o cola?»
«Ciliegia.»
Mi porse il bicchiere. Attesi.
«Zia ha telefonato a Cheryl» mi disse a titolo di spiegazione.
Me l’ero immaginato. «Non ne voglio parlare.»
Lenny fece un salto sul divano. «Nemmeno io.» S’infilò una mano in tasca e tirò fuori un fascio di carte. «Il testamento e le ultime carte sulle proprietà di Monica. Leggili quando vuoi.» Prese il telecomando e si mise a premere i pulsanti. «Non hai un porno?»
«No, mi dispiace.»
Si strinse nelle spalle, accontentandosi di un incontro di basket universitario sul canale ESPN. Rimanemmo per qualche minuto a guardare in silenzio, poi fui io a romperlo.
«Perché non mi hai detto che Rachel aveva divorziato?»
Lui fece una smorfia di dolore e sollevò le mani come se volesse fermare il traffico.
«Cosa vuol dire?» gli chiesi.
«Cervello congelato.» Gli passò subito. «Bevo sempre quella roba ghiacciata troppo in fretta.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Pensavo che non dovessimo parlarne più.»
Lo guardai.
«Non è così semplice, Marc.»
«Che cosa non è così semplice?»
«Rachel ha attraversato dei brutti momenti.»
«Anch’io.»
Lenny guardava la partita con un po’ troppa attenzione.
«Che cosa le è successo, Lenny?»
«Non è affar mio.» Scosse il capo. «Da quanto non la vedi, quindici anni?»
Erano quattordici, per la precisione. «Qualcosa del genere.»
Girò con lo sguardo nella stanza, soffermandosi su una foto di Monica e Tara. Poi lo distolse e mandò giù una sorsata. «Devi smetterla di vivere nel passato, amico mio.»
Ci mettemmo entrambi comodi, fingendo di seguire la partita di basket. Smetterla di vivere nel passato, aveva detto. Guardai la foto di Tara e mi chiesi se Lenny si riferisse a qualcun altro oltre che a Rachel.
Edgar Portman sollevò il collare di cuoio del cane, facendo tintinnare il campanellino fissato a un’estremità: e Bruno, il suo mastino di razza purissima, corse a tutta velocità verso la fonte del suono. Bruno, sei anni prima, era stato campione di morfologia alla mostra canina di Westminster e, a detta di molti, aveva le carte in regola per assicurarsi il titolo assoluto, ma Edgar aveva invece deciso di ritirarlo dal concorso. Un cane da esposizione non sta mai a casa, ed Edgar invece lo voleva con sé.
Gli esseri umani ti deludono. I cani mai, pensava Edgar.
Bruno tirò fuori la lingua, scodinzolando, ed Edgar gli agganciò il guinzaglio al collare. Sarebbero rimasti fuori a passeggio un’ora. L’uomo abbassò lo sguardo sulla superficie lucida della scrivania, sulla quale spiccava un pacchetto di cartone identico a quello che aveva ricevuto diciotto mesi prima. Il cane uggiolò ed Edgar si chiese se quel lamento fosse d’impazienza oppure di paura, quasi che Bruno avesse percepito lo stato d’animo del padrone. Entrambe le cose, forse.
Edgar comunque aveva bisogno di aria.
Il pacchetto di diciotto mesi prima era stato sottoposto a ogni tipo di analisi da parte della polizia scientifica. Ma inutilmente. E ora Edgar era abbastanza certo, sulla scorta della precedente esperienza, che ancora una volta quegli incompetenti degli investigatori non avrebbero scoperto nulla. Diciotto mesi prima Marc non lo aveva ascoltato, ma quell’errore, sperava Edgar, non si sarebbe ripetuto.
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