Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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«Ciao» le dissi.

«Vedo con piacere che con le battute per rimorchiare vai ancora forte» fece lei.

Finsi un sorrisetto sbarazzino. «Di che segno sei, baby?»

«Così va meglio.»

«Vieni spesso qui?»

«Bene. Ora devi dire: “Non ci siamo già visti da qualche parte?”.»

«No.» Inarcai un sopracciglio. «Non avrei potuto dimenticare una ragazza guapa come te.»

Ridemmo. Eravamo tesi. E lo sapevamo tutt’e due.

«Ti trovo bene» le dissi.

«Anche tu te la cavi.»

Breve silenzio.

«Okay» ripresi. «Ho finito la scorta di frasi fatte e di battute forzate.»

«Accidenti!»

«Come mai sei qui?»

«Sto comprando da mangiare.»

«No, voglio dire…»

«Lo so che cosa vuoi dire» m’interruppe. «Mia madre si è trasferita in un nuovo condominio a West Orange.»

Un ciuffo di capelli le era sfuggito dalla coda e le era sceso sul viso. Dovetti fare uno sforzo per impedirmi di allungare una mano e scostarglieli.

Rachel allontanò lo sguardo, poi lo riportò su di me. «Ho saputo di tua moglie e tua figlia. Mi dispiace.»

«Grazie.»

«Avrei voluto telefonarti o scriverti, ma…»

«Ho sentito che ti sei sposata.»

Mosse le dita della mano sinistra. «Non lo sono più.»

«E che eri diventata un’agente dell’FBI.»

Abbassò la mano. «Come sopra, non lo sono più.»

Altro silenzio. Non so dire quanto rimanemmo uno di fronte all’altra. La cassiera era passata alla cliente successiva. Alle nostre spalle comparve Zia, che si schiarì la voce e porse di scatto la mano a Rachel. «Salve, io sono Zia Leroux.»

«Rachel Mills.»

«Piacere di conoscerti, Rachel. Io sono una dottoressa socia di Marc.» Ci pensò un po’ su. «Siamo solo amici» aggiunse.

«Zia» le dissi.

«Già, scusa. Ascolta, Rachel, mi piacerebbe fermarmi a chiacchierare, ma devo scappare.» E per dare maggior peso a quell’annuncio indicò con il pollice l’uscita. «Voi continuate pure a parlare. Marc, noi ci rivediamo qui tra poco. Mi ha fatto piacere conoscerti, Rachel.»

«Altrettanto, Zia.»

Lei scomparve di corsa. «È un bravissimo medico» dissi a Rachel.

«Non ne dubito.» Appoggiò le mani sulla sbarra del carrello. «Mi stanno aspettando in macchina. Mi ha fatto piacere rivederti, Marc.»

«Anche a me.» Indubbiamente, visto tutto ciò che ho perso, qualcosa devo pure averlo imparato, non vi sembra? Non potevo lasciarla andare. Mi schiarii la voce. «Forse dovremmo rivederci.»

«Abito ancora a Washington, domani ci ritorno.»

Silenzio. Le interiora mi erano diventate di gelatina e mi mancava un po’ il fiato.

«Addio, Marc.» Ma i suoi occhi nocciola erano umidi.

«Aspetta ancora un momento.»

Avevo cercato di non farla sembrare un’implorazione, ma non credo di esserci riuscito. Rachel mi guardò e capì tutto. «Che cosa vuoi che ti dica, Marc?»

«Che anche tu vuoi che ci rivediamo.»

«Solo questo?»

Scossi il capo. «No, non solo questo, e lo sai.»

«Non ho più vent’anni.»

«Nemmeno io.»

«La ragazza che amavi è scomparsa per sempre.»

«No, è qui davanti a me.»

«Non sai più chi sono.»

«Bene, facciamo nuovamente conoscenza. Non ho fretta.»

«Ti sembra così semplice?»

Provai a sorridere. «Sì.»

«Vivo a Washington, e tu nel New Jersey.»

«Mi trasferirò.»

Ma ancora prima di pronunciare quelle parole impetuose, prima ancora che Rachel facesse quella faccia, mi ero accorto che mi stavo comportando come uno stupido spaccone. Non potevo dire addio ai miei genitori, lasciare il mio lavoro con Zia o… o abbandonare i miei fantasmi. A metà strada tra la mia bocca e le orecchie di lei quel sentimento s’infranse e bruciò.

Rachel si voltò per andarsene, senza salutarmi una seconda volta. La guardai spingere il carrello verso l’uscita, vidi le porte scorrevoli spalancarsi automaticamente con una specie di grugnito elettrico. Vidi scomparire di nuovo Rachel, l’amore della mia vita, senza nemmeno voltarsi per un fugace sguardo. Rimasi immobile, non la seguii. Sentii il mio cuore crollare in pezzi, ma non feci niente per fermarla.

Forse non avevo imparato nulla, a pensarci bene.

10

Ho bevuto.

Non sono un gran bevitore, quando ero più giovane era l’erba il mio elisir preferito, ma avevo trovato una vecchia bottiglia di gin in uno stipetto sopra il lavandino. Nel frigo c’era dell’acqua tonica e il freezer ha una macchina automatica per fare il ghiaccio. Fate voi due più due.

Vivevo sempre nella vecchia casa dei Levinsky. È troppo grande per me, ma mi si spezzerebbe il cuore lasciarla. Ormai la sento come una specie di portale, una cima di salvataggio (sottile ormai) che mi unisce a mia figlia. Sì, lo so che effetto vi faccio, ma vendere quella casa ora equivarrebbe a sbatterle la porta in faccia. Non posso farlo.

Zia voleva rimanere con me, ma le chiesi di andarsene. E lei non insistette. Mi sono messo a pensare a quella smielata canzone di Dan Fogelberg (non Dan Vattelappesca), quella in cui gli innamorati che si ritrovano parlano fino a quando non gli si stanca la lingua. Ho pensato a Humphrey Bogart che chiede agli dèi perché, tra tanti locali dove Ingrid Bergman poteva capitare, l’avevano fatta finire proprio in quella specie di spaccio di gin che era il suo night. Dopo che lei era partita Bogie aveva cominciato a bere, e sembrava che questo lo tirasse su. Forse avrebbe risollevato anche me.

Il fatto che Rachel potesse mandarmi ancora tanto in bambola mi faceva imbestialire. Era davvero stupido e infantile. Ci eravamo conosciuti durante le vacanze estive, prima del mio terzo anno al college. Lei veniva da Middlebury, nel Vermont, e pare fosse una lontana cugina di Cheryl, anche se nessuno era in grado di stabilirne con certezza il rapporto di parentela. Quell’estate, un’estate con la E maiuscola, Rachel era andata ad abitare dalla famiglia di Cheryl perché i suoi genitori erano nel bel mezzo di un divorzio traumatico. Ci presentarono e, come dicevo, passò del tempo prima che l’autobus mi travolgesse. E forse fu proprio per questo che l’urto fu ancora più violento.

Cominciammo a frequentarci e spesso uscivamo in quattro con Cheryl e Lenny, e passavamo ogni fine settimana nella casa al mare di Lenny sulla costa del New Jersey. Fu effettivamente un’estate splendida, una di quelle che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita.

Se questo fosse un film ora partirebbero le scene della serie “Com’eravamo”. Io andai alla Tufts University mentre Rachel cominciò a frequentare il Boston College. Per la prima scena ci avrebbero probabilmente messi su una barca in mezzo al Charles, il fiume di Boston, io ai remi e Rachel con un ombrellino in mano e le labbra atteggiate a un sorriso prima esitante e poi beffardo. Lei mi schizzerebbe dell’acqua, io schizzerei lei e la barca s’inclinerebbe pericolosamente. Non è mai successo, ma l’atmosfera era quella. La scena seguente ci vedrebbe forse seduti sull’erba del campus per un picnic, poi noi due che studiamo in biblioteca, i nostri corpi avvinghiati su un divano, io che come ipnotizzato la guardo mentre legge una dispensa universitaria, con gli occhiali inforcati e un dito che tormenta un ricciolo dietro l’orecchio. La serie si chiuderebbe probabilmente su due corpi che si dibattono sotto lenzuola di raso bianco, anche se nessuno studente di college usa lenzuola di raso. Ma sto ragionando in termini cinematografici.

Ero innamorato.

Durante le vacanze di Natale andammo in una casa di riposo a trovare la nonna di Rachel, una chiacchierona patentata della vecchia scuola. Ci prese le mani tra le sue e disse: “ Beshert”, parola yiddish che sta per “predestinato”.

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