I Dunkin’ Donuts Munchkins erano finiti. Tutti cominciarono a muoversi verso un parcheggio pieno zeppo di minivan. Dopo la partita noi allenatori portiamo i nostri atleti in erba dal gelataio Schrafft’s, una tradizione del paese. Ogni allenatore nei campionati di qualsiasi fascia di età si attiene a questa tradizione. Il posto era affollatissimo. Non c’è niente come un bel cono per far gelare le ossa quando l’autunno è più freddo.
Osservai la scena leccando distrattamente il mio cono alla crema e biscotti. Padri e figli. Cominciava a essere troppo per me. Guardai l’orologio, si era fatta in ogni caso l’ora di tornarmene al lavoro. Incrociai lo sguardo di Lenny e feci capire al mio amico che me ne stavo andando. Articolò con le labbra la parola “testamento” e, in caso non avessi saputo interpretarla, fece con la mano il gesto di firmare qualcosa. Gli indicai che avevo capito, mi infilai in auto e accesi la radio.
Rimasi a lungo a guardare il flusso delle famigliole. Tenevo lo sguardo soprattutto sui padri, controllavo le loro reazioni a questa incombenza domestica per eccellenza sperando di cogliere un lampo di dubbio, qualcosa nei loro occhi che potesse in qualche modo consolarmi. Ma fu tutto inutile.
Non ricordo quanto tempo rimasi lì. Non più di dieci minuti, direi. Alla radio trasmisero un vecchio successo di James Taylor, che mi riportò su questa terra. Sorrisi, misi in moto l’auto e mi mossi in direzione dell’ospedale.
Un’ora dopo mi stavo lavando le mani per un intervento su un bambino di otto anni con il volto schiacciato, per usare una terminologia comune al profano e al professionista. C’era anche la mia collega e socia Zia Leroux.
Non ricordo bene quando decisi di fare il chirurgo plastico. A convincermi non furono né il canto delle sirene del guadagno, né l’ideale di dare una mano ai miei simili. Volevo fare il chirurgo praticamente da sempre, ma mi vedevo meglio nel settore vascolare o in quello cardiaco. È strano a volte come cambia la vita. Durante il secondo anno di internato il cardiochirurgo incaricato di spostarci da un reparto all’altro era, come posso dire?, una completa testa di cazzo. Mentre invece il responsabile della chirurgia estetica, Liam Reese, era un personaggio incredibile. Il dottor Reese aveva quella invidiabile superiorità naturale, quella combinazione di bella presenza, calma, fiducia e calore umano che attirava naturalmente gli altri. Ti faceva venire voglia di piacergli, di essere come lui.
Il dottor Reese divenne il mio mentore. Mi fece capire quanto fosse creativa la chirurgia ricostruttiva, un’attività che ti costringe a trovare nuovi sistemi per rimettere insieme i pezzi di ciò che è andato distrutto come Humpty-Dumpty, il personaggio della canzoncina per bambini caduto da un muro e finito in mille pezzi. Le ossa del viso e del cranio rappresentano la trama scheletrica più complessa del corpo umano. E noi che le ripariamo siamo degli artisti. Siamo jazzisti. I chirurghi ortopedici o quelli del torace possono essere molto precisi sulle tecniche che applicano mentre il nostro lavoro, quello della ricostruzione, non è mai lo stesso. Improvvisiamo, noi. Me l’ha insegnato il dottor Reese. Sapeva risvegliare il mio profondo interesse per la microtecnologia parlandomi di microchirurgia, di trapianti ossei, di pelle sintetica. Ricordo le volte in cui andavo a trovarlo a Scarsdale, aveva una bella moglie con le gambe lunghe, la figlia era la prima del suo corso, il figlio era il ragazzo più in gamba che avessi mai conosciuto oltre a essere il capitano della squadra di basket del suo college. Il dottor Reese morì a quarantanove anni in un incidente stradale sulla Route 684, direzione Connecticut. Qualcuno, ma non io, potrebbe vedere qualcosa di toccante in tutto questo.
Stavo terminando il periodo di internato quando vinsi una borsa di studio di un anno per fare pratica di chirurgia maxillofacciale all’estero. Non avevo presentato la domanda per andare a fare del bene al prossimo, ma solo perché mi sembrava fichissima un’esperienza del genere, l’equivalente del viaggio in Europa con zaino e sacco a pelo. Era quello che speravo, ma le cose andarono subito storte. Ci trovammo infognati in una guerra civile in Sierra Leone. Dovetti curare ferite così orribili e inimmaginabili da non poter quasi credere che la mente umana possa essere tanto crudele da infliggerle. Ma, anche in mezzo a quelle tragedie, provavo una strana euforia. Non cerco neanche di scoprirne il motivo, come dicevo prima questa attività mi dà una carica di energia. Forse, in parte, per la soddisfazione di aiutare chi ne ha veramente bisogno. O forse questo lavoro mi attrae come altri sono attratti dagli sport estremi, gente che ha bisogno di rischiare la vita per sentirsi viva.
Tornato negli Stati Uniti, creai insieme con Zia One World, e la mandavamo avanti bene. Mi piace ciò che faccio. Il nostro lavoro è forse una specie di sport estremo, ma ha anche un volto umano, se mi si passa il gioco di parole. Mi piace. Voglio bene ai miei pazienti ma allo stesso tempo adoro l’aspetto tecnico e la necessaria freddezza insiti nella mia attività. Mi stanno molto a cuore, i pazienti, ma poi li dimetto e non li vedo più: questo intenso amore che provo per loro comporta quindi un coinvolgimento passeggero.
Il paziente di oggi era un caso piuttosto complicato. Il mio santo patrono, il santo patrono di molti di noi che pratichiamo la chirurgia plastica, è il ricercatore francese René Le Fort. Uno che lanciava i cadaveri di testa dai tetti delle taverne per vedere la rete naturale di fratture del viso. Immagino che colpo facesse sulle signore. Oggi diamo il suo nome a certe fratture, abbiamo così la Le Fort di tipo I, II e III. Con Zia osservammo nuovamente le radiografie. La posizione Water ci offriva il quadro più preciso, e altri particolari ci venivano dalla Caldwell e dalla laterale.
La frattura sul volto di questo bambino di otto anni era una Le Fort di tipo III, che aveva prodotto la separazione completa delle ossa facciali dal cranio. Avrei potuto strappargli il volto come se fosse stata una maschera, se avessi voluto.
«Incidente stradale?» chiesi.
«Sì» mi rispose Zia. «Il padre era ubriaco.»
«Non mi dire. E naturalmente lui non si sarà fatto niente, vero?»
«Si era perfino ricordato di allacciarsi la cintura di sicurezza.»
«Ma non quella del figlio.»
«Troppa fatica. Pensa a quanto doveva essersi stancato a sollevare tante volte il bicchiere.»
Zia e io avevamo iniziato il nostro cammino terreno in due posti diversissimi. Come dice la canzone Brother Louie , quel classico anni Settanta degli Story, Zia è nera come la notte mentre io sono più bianco del bianco (Zia definisce la tonalità cromatica della mia pelle “bianca come la pancia di un pesce sott’acqua”). Sono nato al Beth Israel Hospital di Newark e cresciuto sulle strade del centro residenziale extraurbano di Kasselton, New Jersey. Zia è nata in una capanna di fango a pochi chilometri da Port-au-Prince, la capitale di Haiti. Durante il regime di Papa Doc i suoi genitori furono incarcerati come prigionieri politici, ma nessuno conosce nel dettaglio i particolari. Il padre venne giustiziato e la madre, quando la rimisero in libertà, era “merce deteriorata”. La donna prese la figlia e fuggì su quella che con molta fantasia potrebbe definirsi una zattera. Tre dei passeggeri morirono durante il viaggio, ma Zia e la madre sopravvissero. Arrivarono nel Bronx, e si sistemarono nella cantina di una parrucchiera passando le giornate a scopare in silenzio i capelli dal pavimento. Non c’era modo per Zia di sfuggire ai capelli, se li ritrovava sugli abiti, appiccicati alla pelle, in gola, nei polmoni. Da allora vive con la sensazione che gliene sia finito in bocca qualcuno del quale non riesce a liberarsi. E ancora oggi, quando è nervosa, gioca con le dita sulla lingua come per sbarazzarsi di un ricordo del passato.
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