Conner annuì, soddisfatto della mia risposta. Gli voglio bene. Mi spezza il cuore e mi riempie di gioia in egual misura, nello stesso momento. Ha ventisei mesi, due più di Tara. Seguo la sua crescita con uno sgomento e una smania che potrebbero accendere una fornace.
Si voltò a guardare la madre. Attorno a Cheryl erano disseminati gli articoli che si era portata dietro in versione mamma-mula-da-carico. C’erano confezioni di succo Minute Maid e barrette di Nutri-Grain, pannolini Pampers Baby-Dry (Baby-Asciutto forse il contrario di quelli Baby-Bagnato?) e salviettine Huggies con autentico succo di aloe per sederini esigenti. C’erano bottiglini angolati della Evenflo. C’erano Teddy Graham alla cannella, carotine ben grattugiate, arance a spicchi, acini d’uva tagliati per il lungo per evitare rischi di soffocamento, cubetti di qualcosa che sperai fosse formaggio, tutti ermeticamente chiusi nei loro sacchetti di plastica Ziploc.
Lenny, allenatore in prima, stava gridando ai piccoli giocatori le mosse chiave della nostra strategia vincente. Quando eravamo all’attacco, gridava: «Segna!», se invece ci difendevamo il consiglio era: «Fermalo!». Altre volte, come in quel momento, dava sfoggio di grandi doti intuitive che penetravano nei meandri più reconditi di quel gioco.
«Dai un calcio alla palla!»
Dopo averlo urlato per la quarta volta consecutiva mi guardò. Io sollevai il pollice e mi congratulai con una semplice occhiata. Lui, per tutta risposta, avrebbe voluto sollevare il medio, ma c’erano troppi testimoni innocenti. Tornai a incrociare le braccia e mi misi a osservare il campo da gioco. I ragazzini erano tutti in tenuta da calcio come i giocatori professionisti, con gli scarpini bullonati e i calzettoni tirati sopra i parastinchi. Alcuni si erano passati del grasso nero sotto gli occhi, anche se non c’era la minima traccia di sole. Due si erano addirittura messi sul naso quei cerotti che servono a respirare meglio. Stavo osservando Kevin, il mio figlioccio, che, seguendo le istruzioni paterne, tentava di dare un calcio al pallone. E all’improvviso mi sentii come se qualcuno mi avesse dato un pugno.
Feci un passo indietro.
Succedeva sempre così. Stavo assistendo a una partita, o magari cenavo con amici o lavoravo su un paziente o ascoltavo una canzone alla radio. Facevo insomma qualcosa di normale, routinario, sentendomi una persona rispettabile, e a un tratto, bang, venivo colto alla sprovvista.
Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Non mi era mai successo prima che uccidessero mia moglie e si portassero via la bambina. Sono un medico, so come controllarmi sia in ambito professionale sia nella vita di ogni giorno. Ma ora porto in continuazione gli occhiali da sole come un attore di second’ordine che si sente una superstar. Cheryl mi fissò e ancora una volta lessi nei suoi occhi la preoccupazione. Mi raddrizzai, sforzandomi di sorridere. Cheryl si stava facendo bella. Succede, a volte. A certe donne la maternità si addice, dà al loro aspetto fisico una meraviglia e una ricchezza quasi celestiali.
Non vorrei però dare un’impressione sbagliata, non passo le giornate a piangere. Sono triste, certo, ma non in ogni momento. Non sono paralizzato, lavoro, anche se non ho ancora trovato il coraggio di tornare a operare all’estero. Continuo a ripetermi che devo rimanere in zona, nell’eventualità che insorga qualche fatto nuovo. Lo so, ragionare così non è razionale e forse, al contrario, è proprio maniacale. Ma non sono ancora pronto.
Ciò che mi colpisce, che mi dà quella botta a sorpresa, è il modo in cui il dolore sembra che si diverta a prenderti alla sprovvista. Il dolore, se localizzato, può essere, se non proprio gestito, quanto meno manipolato, aggirato, controllato. Ma un dolore del genere si acquatta dietro i cespugli e ama sbucare all’improvviso facendoti trasalire, rifacendoti il verso, spogliandoti di ogni pretesa di normalità. Il dolore ti culla fin quando non ti addormenti, per poterti cogliere ancora più alla sprovvista.
«Zio Marc?»
Era ancora Conner. Parlava già bene per la sua età. Mi chiesi come sarebbe stata la voce di Tara e chiusi gli occhi dietro gli occhiali scuri. Cheryl si rese conto del mio stato d’animo e allungò un braccio per allontanare il bambino, ma io glielo impedii. «Che c’è, amico mio?»
«E la cacca?»
«La cacca?»
Sollevò gli occhi e ne chiuse uno per concentrarsi. «La cacca è amica mia?»
Bella domanda. «Non lo so, amico. Tu che dici?»
Conner si mise a considerare il suo quesito con una tale intensità che sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro. «È più amica mia della diarrea» decise alla fine.
Annuii solennemente. La nostra squadra segnò un’altra rete. «Sì!» esclamò Lenny, sollevando in aria i pugni, poi fece quasi la ruota per andarsi a congratulare con l’autore del gol, Craig (ma forse dovrei dire Craigy). Gli altri giocatori lo seguirono e ci fu un nutrito scambio di “cinque”. Io non li imitai. Il mio ruolo, decisi, era quello del socio tranquillo di Lenny e dei suoi istrionismi, come Tonto con il Cavaliere Solitario, Pinotto con Gianni, Rowan con Martin e il Capitano con Tenille. Equilibrio, insomma.
Mi misi a guardare i genitori dietro le due linee del fallo laterale. Le mamme formavano capannelli, parlando dei loro bambini, dei loro successi, delle attività extrascolastiche e nessuno in pratica stava a sentire, perché i bambini degli altri annoiano. I papà offrivano una gamma più ampia. Alcuni stavano riprendendo con la videocamera i loro rampolli. Altri lanciavano grida d’incoraggiamento. Altri ancora se li mettevano pericolosamente a cavalcioni sulle spalle. Alcuni chiacchieravano al cellulare e armeggiavano con qualche aggeggio elettronico portatile, una specie di camera di decompressione dopo cinque giorni di full immersion lavorativa.
Perché avevo avvertito la polizia?
Da quel giorno mi sono sentito ripetere infinite volte che non è colpa mia se è successo quello che è successo. A un certo livello mi rendo conto che le mie azioni possono non avere minimamente interferito, tutto lascerebbe infatti pensare che quelli non avevano alcuna intenzione di ridarmi Tara: che magari era già morta prima della richiesta di riscatto. Potrebbe anche essere morta accidentalmente, forse quelli erano in preda al panico o si erano strafatti di roba. Chi lo sa? Io no di certo.
E qui sta il punto.
Non posso ovviamente avere la certezza di non essere responsabile. È l’ABC della scienza: a ogni azione corrisponde una reazione.
Non sogno Tara. Oppure, se la sogno, gli dèi sono così generosi da non farmela ricordare. Ma forse sto esagerando i loro meriti. Proviamo con una nuova formulazione: magari non sogno proprio Tara, ma rivedo il furgone bianco con le due mezze targhe saldate e l’insegna magnetica rubata. Nei miei sogni odo un suono attutito, ma sono pressoché certo che è il pianto di un bambino. Tara era dentro il furgone, ora lo so, ma nel sogno non mi muovo verso il punto da dove proviene il pianto. Ho le gambe sepolte nel letame dell’incubo, non ce la faccio a muovermi. E quando alla fine mi risveglio non riesco a sottrarmi a un dubbio scontato: Tara era così vicina a me? E, cosa ancora più importante: se avessi avuto un po’ più di coraggio, avrei potuto salvarla quel giorno?
L’arbitro, un liceale allampanato dal sorriso accattivante, fischiò agitando le mani sopra il capo. Fine dell’incontro. «E vai!!» gridò Lenny. I bambini si guardavano l’un l’altro, confusi. «Chi ha vinto?» chiese uno di loro a un compagno di squadra, che si strinse nelle spalle. Poi, come i partecipanti alla Stanley Cup di hockey, si misero in fila per le strette di mano finali. Cheryl si alzò, appoggiandomi una mano sulla schiena. «Bella vittoria, mister.»
«Già, è tutta sulle mie spalle questa squadra.»
Читать дальше