Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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I nostri sguardi s’incrociarono e ciò che vidi non mi piacque granché. Avvicinai la sedia a rotelle alla panchina ed Edgar tenne gli occhi fissi su di me ignorando completamente mio padre, per lui quello che stavo spingendo poteva benissimo essere un carrello del supermercato.

«Sua madre mi ha detto che sarebbe passato di qui.»

«Che c’è?» gli chiesi.

«Si sieda qui accanto.»

Fermai alla mia sinistra la sedia a rotelle e tirai il freno. Mio padre teneva gli occhi fissi nel vuoto e la testa inclinata a destra, come fa sempre quando è stanco. Mi voltai a guardare Edgar, che non aveva più le gambe accavallate.

«Mi stavo chiedendo come dirglielo» cominciò.

Fece una pausa, poi spostò lo sguardo.

«Edgar?» dissi.

«Sì?»

«Lo dica e basta.»

Sembrò apprezzare il mio tono brusco, lui era fatto così. «Mi è arrivata un’altra richiesta di riscatto» disse, saltando i preamboli.

Vacillai. Non so che cosa mi aspettassi di sentire, forse che avevano trovato Tara morta, ma quello che stava dicendo… Non riuscivo proprio a metabolizzarlo. Stavo per fargli una domanda quando mi accorsi che aveva in grembo una cartella di cuoio, che aprì tirandone fuori qualcosa. Era un sacchetto di plastica, come l’altra volta. Me lo porse e fu come se qualcosa mi si gonfiasse nel petto. Battei le palpebre e guardai il sacchetto.

Capelli. Conteneva dei capelli.

«È questa la prova che ci hanno dato» disse Edgar.

Non riuscivo a parlare. Guardai i capelli e lentamente mi posai in grembo il sacchetto.

«Hanno previsto che saremmo stati scettici» proseguì lui.

«Chi l’ha previsto?»

«I rapitori. Ci hanno concesso qualche giorno e ho fatto immediatamente analizzare quei capelli per identificare il DNA.»

Sollevai lo sguardo su di lui, poi lo riportai sui capelli.

«I risultati preliminari sono arrivati due ore fa. Non si possono utilizzare come prova in tribunale, ma sono ugualmente incontrovertibili. I capelli sono gli stessi che ci hanno mandato un anno e mezzo fa.» S’interruppe e deglutì. «Questi capelli sono di Tara.»

Udii le parole, ma non le compresi. E per qualche motivo scossi il capo in segno di diniego. «Forse li avevano messi da parte un anno e mezzo fa…»

«No. Le analisi si riferiscono anche all’età e questi capelli appartengono a un bambino di circa due anni.»

Probabilmente lo sapevo già. Quelli non erano i capelli sottili di un neonato di pochi mesi, Tara a due anni li avrebbe avuti più scuri e robusti… proprio come quelli.

Edgar mi porse un biglietto e, sempre con la testa annebbiata, lo presi. Il carattere in cui era stato scritto era lo stesso di quello del biglietto ricevuto diciotto mesi prima. Sulla riga in alto, proprio sopra la piegatura, si leggeva:

VOLETE UNA SECONDA OCCASIONE?

Provai una profonda fitta al petto e d’improvviso la voce di Edgar mi giunse da lontano. «Avrei dovuto dirglielo subito, probabilmente, ma mi era sembrato uno scherzo di cattivo gusto. Carson e io non volevamo farle nascere false speranze. Ho qualche amico, mi hanno fatto avere i risultati del DNA a tempo di record, confrontando questi capelli con quelli che avevamo ricevuto l’altra volta.» Mi appoggiò una mano sulla spalla. Rimasi immobile.

«È viva, Marc. Non so come o dove, ma Tara è viva.» Tenni gli occhi fissi sui capelli. Tara. Erano di Tara. Quella lucentezza, quella tonalità del frumento dorato. Li stropicciai attraverso la plastica, avrei voluto infilare le dita nel sacchetto, toccare mia figlia, ma temevo che mi sarebbe scoppiato il cuore.

«Vogliono altri due milioni di dollari. E ci consigliano di non avvertire la polizia, dicono di avere un informatore tra gli agenti. Hanno mandato un altro cellulare, in auto ho i soldi. Ci restano ancora ventiquattr’ore, forse, è questo il tempo che ci hanno lasciato per il test del DNA. Dovrà essere pronto.»

Lessi finalmente il messaggio, poi spostai lo sguardo su mio padre, immobile nella sua sedia a rotelle. Lui teneva sempre lo sguardo fisso davanti a sé.

«Lo so, lei pensa che io sia ricco» riprese Edgar. «E forse è così, ma non quanto crede. Ho fatto delle speculazioni e sono indebitato e quindi…»

Mi voltai verso di lui. Aveva gli occhi spalancati e gli tremavano le mani.

«Voglio dire che non ho poi moltissima liquidità, non sono pieno di soldi, insomma. Tutto qui.»

«Già mi sorprende che faccia ciò che sta facendo.»

Quelle parole lo ferirono, me ne accorsi subito. Avrei voluto scusarmi, ma per qualche motivo non lo feci. Spostai lo sguardo su papà, il suo viso era sempre come pietrificato ma, osservandolo attentamente, notai una lacrima sulla guancia. Non significava nulla, a volte gli sfuggiva qualche lacrima, di solito però senza alcun motivo evidente. Non detti quindi particolare importanza a quel fatto.

Poi però, non so perché, seguii il suo sguardo. E fissai con lui al di là del campo di calcio, delle porte, delle due donne con le scarpe da corsa Baby Joggers, fino alla strada a un centinaio di metri da noi. E provai una fitta allo stomaco vedendo sul marciapiedi un uomo con una camicia di flanella a scacchi, jeans neri e berretto degli Yankees che mi osservava tenendo le mani in tasca.

Non avevo la certezza che fosse lo stesso individuo della consegna del riscatto: le camicie di flanella a scacchi rossi e neri non sono un capo d’abbigliamento così insolito. Magari sarà stata la mia immaginazione, visto che mi trovavo piuttosto distante da lui, ma ebbi l’impressione che mi stesse sorridendo. Sentii una scossa percorrermi il corpo.

«Marc» disse Edgar.

Non lo udii quasi. Mi alzai senza perdere di vista quell’uomo, che sulle prime non si mosse. Allora mi misi a correre verso di lui.

«Marc?» Ma sapevo che non mi sbagliavo. Non avevo dimenticato, se chiudevo gli occhi continuavo a vederlo, la sua immagine non mi aveva mai lasciato. E desideravo che arrivasse quel momento. Lo sapevo, e sapevo anche quali conseguenze quel desiderio avrebbe potuto avere. Ma corsi puntando verso di lui, perché non potevo sbagliare: sapevo chi era.

Mi trovavo ancora a una certa distanza quando il tipo sollevò la mano e mi fece ciao. Continuai a correre, ma ero ben consapevole dell’inutilità di quella corsa. Ero a metà strada quando gli si accostò un furgone bianco, l’uomo con la camicia a scacchi mi fece il saluto militare e salì dal portellone posteriore.

Il furgone scomparve prima ancora che fossi arrivato alla strada.

14

Il tempo cominciava a farmi brutti scherzi, andava e veniva, si affrettava e rallentava, era nitido e poi sfocato. Ma la cosa non durò per molto e il chirurgo che era in me prese il sopravvento. Marc il medico sapeva dividere in compartimenti, ma quest’attività l’ho sempre trovata più facile da svolgere nella vita professionale piuttosto che in quella privata. L’abilità di dividere, separare, staccare non si è mai trasferita dal lavoro al privato. Sul lavoro riesco a incanalare i miei eccessi emotivi, indirizzandoli verso una meta costruttiva, cosa che invece non mi è mai riuscito di fare a casa.

Quella crisi mi aveva costretto però a cambiare, e dividere in compartimenti ormai non era tanto un’aspirazione quanto un requisito di sopravvivenza. Buttarla sul sentimentale, arrovellarmi nel dubbio senza fare nulla, soffermarmi a considerare ciò che significava la scomparsa di una bambina per diciotto mesi… be’, mi avrebbe paralizzato. E probabilmente era proprio quello che volevano i rapitori, sfiancarmi psicologicamente. Ma io sotto pressione rendo al meglio, lo so, e quindi dovevo reagire assolutamente. Le pareti dei compartimenti si sollevarono e riuscii a considerare la situazione razionalmente.

Prima cosa: no, questa volta non avrei avvertito la polizia.

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