Ma ciò non significava che sarei rimasto ad aspettare con le mani in mano.
Quando Edgar mi passò il sacco di tela pieno di soldi, mi venne un’idea.
Telefonai a casa di Cheryl e Lenny, ma non rispose nessuno. Guardai l’orologio, erano le otto e un quarto del mattino. Non avevo il numero del cellulare di Cheryl, e comunque certe cose andavano dette di persona.
Salii in auto e alle otto e venticinque ero davanti alle elementari Willard. Parcheggiai dietro una fila di fuoristrada e minivan e scesi. Questa scuola elementare, come tante altre, è a un piano solo, è in mattoni con gradini di cemento sul retro, e il progetto originale degli architetti è stato reso informe dalle troppe aggiunte. Alcune di queste hanno tentato di armonizzarsi con l’insieme ma ce ne sono altre, realizzate tra il 1968 e il 1975, del tipo finto-slanciato con vetrate blu e strane tegole: l’effetto è quello di una specie di serra post-apocalittica.
I bambini scorrazzavano nel campo giochi, come sempre. La differenza, in questo caso, era rappresentata dai genitori che erano rimasti a osservarli, chiacchierando tra loro. Al suono della campanella questi stessi genitori risalivano in auto, dopo essersi assicurati che i loro figlioli fossero al sicuro dentro l’edificio di mattoni o di slanciate vetrate blu. Ma li capivo. Quando si diventa genitori, la paura diventa una compagna fissa, non ti lascia più: e la mia vita è la prova per eccellenza di questo assunto.
La Chevy Suburban azzurra di Cheryl si fermò nell’area di “scarico-bambini” e io mi avviai verso di lei. Stava togliendo Justin dal seggiolino quando mi vide. Justin le diede un bacio rispettoso, un gesto che penso lui consideri scontato come in effetti deve essere, e si allontanò di corsa. Cheryl lo seguì con lo sguardo, quasi temesse che potesse scomparire su quel vialetto di cemento. I bambini non capiscono questa paura dei loro genitori, ma meglio così: è già abbastanza dura essere un bambino per doversi anche preoccupare delle paure degli altri.
«Salve» mi fece Cheryl.
Ricambiai il saluto. «Mi serve qualcosa.»
«Che cosa?»
«Il numero di telefono di Rachel.»
Cheryl era tornata allo sportello del posto di guida. «Sali.»
«Ho l’auto parcheggiata là.»
«Poi ti riporto indietro. L’allenamento di nuoto è durato più del solito e devo portare Marianne a scuola.»
Aveva già messo in moto e mi sedetti accanto a lei, poi mi voltai a fare un sorriso a Marianne che aveva alle orecchie la cuffia del Walkman e stava giocando con il Game Boy. Mi fece un cenno di saluto distratto sollevando impercettibilmente lo sguardo, aveva i capelli ancora bagnati. Sul seggiolino accanto a lei sedeva Conner. Nell’auto c’era un forte odore di cloro, ma lo trovai stranamente gradevole. Sapevo che Lenny puliva quell’auto con religiosa meticolosità, ma non poteva certo fare miracoli. Nello spazio tra i sedili vidi alcune patatine, qua e là la carrozzeria era incrostata di qualcosa di origine sconosciuta. Accanto ai miei piedi giaceva un’accozzaglia di comunicazioni scolastiche e disegni dei bambini, vittime del furioso attacco degli scarponcini impermeabili. Io sedevo su un pupazzetto di plastica, come quelli delle confezioni Happy Meal di McDonald’s. Tra me e Cheryl c’era la custodia di un CD sulla quale si leggeva “Ecco che cosa chiamo musica 14”, con gli ultimi successi di Britney, Christina e la Generic Boy Band. I finestrini posteriori erano pieni di impronte di mani appiccicose.
I bambini potevano giocare al Game Boy solo in auto, mai in casa. E mai, per nessun motivo, era consentito loro di guardare un film per la cui visione era consigliata la presenza dei genitori. Una volta chiesi a Lenny e Cheryl come si regolassero su questi argomenti lui e la moglie. “Non sono importanti le regole in se stesse: l’importante è che ci siano delle regole” mi rispose, e credo di capire che cosa avesse voluto dire.
Cheryl teneva gli occhi sulla strada. «Non sono un’impicciona di natura.»
«Ma vuoi sapere che cosa ho intenzione di fare.»
«Più o meno.»
«E se non to le volessi dire?»
«Forse faresti meglio a non dirmelo.»
«Fidati, Cheryl. Ho bisogno di quel numero.»
Mise la freccia. «Rachel è ancora la mia migliore amica.»
«Okay.»
«Ci ha messo molto tempo a riprendersi dopo che avete rotto» disse, esitante.
«E viceversa.»
«Proprio così. Ascolta, non dico così per dire… Ci sono certe cose che dovresti sapere.»
«Per esempio?»
Teneva sempre gli occhi sulla strada, con entrambe le mani sul volante. «Hai chiesto a Lenny il motivo per cui non ti abbiamo mai detto che aveva divorziato.»
«Esatto.»
Guardò lo specchietto retrovisore, ma era la figlia che le interessava, non la strada. Marianne sembrava completamente assorbita dal suo gioco. «Non ha divorziato. Suo marito è morto.»
Cheryl fermò lentamente l’auto davanti alla scuola media. Marianne si tolse la cuffia e scivolò giù, senza preoccuparsi del bacio di rito alla madre. Si limitò a salutarci. Cheryl ingranò la marcia.
«Mi dispiace» dissi, perché è quello che si dice di solito in questi casi. Ma siccome a volte il cervello funziona in modo stranissimo e perfino macabro, stavo per aggiungere: “Accidenti, io e Rachel abbiamo qualcos’altro in comune”.
Lei sembrò leggermi nel pensiero. «Gli hanno sparato» aggiunse all’improvviso.
Questo inquietante parallelo rimase sospeso tra noi per qualche secondo. Stetti in silenzio.
«Non conosco i particolari» aggiunse subito. «Era anche lui dell’FBI, all’epoca Rachel era una delle donne più alte in grado del Federal Bureau. Dette le dimissioni dopo la morte del marito e smise di rispondere alle mie telefonate. Da allora se la passa male.» Cheryl si affiancò alla mia auto. «Ti sto dicendo queste cose perché voglio che tu capisca. Sono passati anni dai tempi del college e Rachel non è più la ragazza che amavi tanti anni fa.»
Cercai di parlare con voce ferma. «Ho solo bisogno del suo numero di telefono.»
Senza dire una parola Cheryl prese dall’aletta parasole una penna, le tolse il cappuccio con i denti e scarabocchiò un numero su un fazzolettino di carta dei Donkin’ Donuts.
«Grazie» le dissi.
Lei abbozzò un cenno del capo mentre scendevo dall’auto.
Non esitai. Entrai in macchina e composi il numero sul cellulare. Rachel rispose: «Pronto» con voce incerta e le mie parole furono fin troppo semplici.
«Ho bisogno del tuo aiuto.»
Cinque ore più tardi il treno di Rachel entrava nella stazione di Newark.
Non potei fare a meno di pensare a tutti i vecchi film in cui gli amanti vengono separati dai treni, con il vapore che esce da sotto le carrozze, il conduttore che grida per l’ultima volta: “Tutti a bordo!”, il suono del fischietto, il cigolio delle ruote che prendono lentamente a muoversi, uno dei due amanti che si sporge dal finestrino per salutare l’altro che corre sul marciapiedi accanto al treno in movimento. La stazione di Newark è romantica come può esserlo una cacca di cane spiaccicata. Il treno si avvicinò senza quasi emettere un sospiro e nell’aria non aleggiò nulla di ciò che si sarebbe voluto vedere o odorare.
Ma quando Rachel scese mi sentii ancora nel petto quel rumore sordo e continuo. Indossava jeans scoloriti e un maglioncino a girocollo rosso. A tracolla portava la borsa da viaggio. Per un momento rimasi a guardarla. Io avevo appena compiuto trentasei anni, Rachel ne aveva trentacinque. Non eravamo più stati insieme da quando ne avevamo ventuno-ventidue, avevamo vissuto separati tutta la nostra vita adulta. Strano, a pensarla in questi termini. Vi ho già detto della nostra rottura. Cerco di individuarne i motivi, ma forse è tutto molto semplice. Eravamo giovanissimi e i giovani fanno delle fesserie, non pensano alle conseguenze, non vedono le cose a lungo termine. Non capiscono che il rumore sordo e continuo che sentono nel petto potrebbe non lasciarli mai.
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