«Questa potrebbe diventare la tua stanza del biliardo», diceva. «Potremmo metterci un humidor per i tuoi sigari.»
«Ma io non fumo.»
«Credo che sarebbe bello.»
«E non gioco a biliardo.»
«Dovresti provare.»
Stupidi discorsi che gli tornavano alla mente mentre sedeva alla scrivania con una lente di ingrandimento in mano. Non il ridicolo strumento alla Sherlock Holmes che sua moglie gli aveva regalato per un compleanno, un aggeggio assurdo per l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios. Questa era una lente di ingrandimento montata su una scatola di perspex che illuminava l'oggetto osservato.
Stava guardando le foto che aveva trovato nella scrivania di Raúl Jiménez. Di fronte a lui, appoggiate alla cornice di una fotografia di sua madre che lo teneva in braccio, con accanto suo fratello Paco di sette anni e sua sorella Manuela di cinque, stavano altre due foto vicine. La prima un'altra istantanea di sua madre, seduta sulla spiaggia con il vento tra i capelli, in costume da bagno, in testa una cuffia cosparsa di fiori di gomma dai petali bianchi. Era la foto che lei preferiva. Sul retro era scritto: «Tangeri, giugno 1952». Aveva venticinque anni allora ed era impossibile credere, guardando quell'immagine così vitale, che le restassero soltanto nove anni da vivere.
La seconda era una fotografia di suo padre, capelli neri pettinati all'indietro, baffetti sottili, naso troppo grosso per il viso giovane, la bocca sensuale. E gli occhi. Perfino in bianco e nero gli occhi erano straordinari. Davano l'impressione di vedere molto, molto lontano e qualsiasi luce ricevessero brillava nell'iride, che era verde ma tendente all'ambra vicino alla pupilla. A più di ottant'anni, anche dopo il primo infarto che lo aveva indebolito, quegli occhi verdi riuscivano ancora a catturare la luce. Erano gli occhi che ci si aspettava in un artista della sua statura, scrutatori, penetranti e magici. Nella foto suo padre indossava uno smoking bianco e un papillon nero. Sul retro: «Capodanno 1953, Tangeri».
Falcón esaminò le fotografie di Jiménez, seccato per la loro cattiva qualità. Si domandò perché diavolo le stesse studiando. Aveva, sì, l'abitudine di lavorare partendo per la tangente, ma questo era assurdo, non aveva nessun collegamento con il caso. Che differenza avrebbe fatto riconoscere l'uno o l'altro dei suoi genitori in quelle fotografie? Che importanza poteva avere che si fossero trovati a Tangeri nello stesso periodo in cui anche Raúl e Gumersinda Jiménez erano là? C'erano anche altri quarantamila spagnoli. Eppure, mentre argomentava così contro quella mancanza di logica, era sempre più preso dalla sua ricerca, tanto che, per un attimo, si convinse che fosse un inequivocabile segno di vecchiaia.
Le foto dello yacht, semplici scatti per immortalare il nuovo giocattolo di Raúl Jiménez, non lo interessarono finché non arrivò a un'immagine del porto pieno di barche e di gente che festeggiava sui ponti, in primo piano Jiménez, la moglie e i bambini. Sembravano felici. La moglie salutava con la mano, i due figli ridenti sulle ginocchia. Falcón fece scorrere la lente sulle altre imbarcazioni ormeggiate dietro quella di Jiménez. Si arrestò, tornò indietro su una coppia in coperta e scartò l'idea di una somiglianza. Spostò di nuovo la lente, ma, riportandola sulla coppia, comprese perché lo aveva fatto: l'uomo era suo padre, appoggiato alla battagliola di uno yacht molto più grande di quello di Raúl. Era con una donna della quale non riusciva a distinguere con chiarezza il viso, ma che aveva i capelli biondi. Si stavano baciando. Un rapido particolare privato che il fotografo di Jiménez aveva colto inavvertitamente. Controllò il retro della foto: «Tangeri, agosto 1958». Pilar, sua madre, era ancora viva. Osservò più attentamente la donna bionda e con suo stupore vide che era Mercedes, la seconda moglie di suo padre. Fu colto da un senso di nausea e, spinta via la lente, si premette il palmo delle mani sugli occhi. Ecco quello che accadeva quando si partiva per la tangente… ci si imbatteva in verità insospettate. Solo per questo lo faceva.
Squillò il telefono: sua sorella, da un cellulare in un bar affollato.
«Sapevo che ti avrei trovato a casa, visto che non eri al lavoro», gli disse Manuela. «Che stai facendo, fratellino?»
«Sto guardando qualche vecchia foto.»
«Ehi! Andiamo, vecchietto, un po' di vita! Siamo qui a La Tienda ancora per una mezz'ora, vieni a bere una cervecita con noi. Poi andiamo a cena da El Cairo, puoi venire anche tu, se ti porti il bastone.»
«Vengo per la cervecita. »
«Bravo, fratellino. E un'altra cosa, una condizione molto importante…»
«Sì, Manuela?»
«Non ti sarà permesso di pronunciare la parola 'Inés'. Okay?»
Manuela riagganciò. Falcón scosse il capo verso il telefono muto. Sua sorella era una cattiva psicologa. Infilò la giacca, raddrizzò il nodo alla cravatta, controllò le tasche e vi trovò l'indirizzo e il numero di telefono del figlio di Raúl Jiménez. Il giorno dopo era Viernes Santo. Giorno festivo. Compose il numero, giusto per fare un tentativo. José Manuel Jiménez rispose. Falcón si presentò e gli porse le sue condoglianze.
«Sono già stato informato», rispose l'altro, pronto a riagganciare.
«Volevo soltanto parlarle di…»
«In questo momento non posso.»
«Forse potremmo vederci domani… per una breve conversazione. Sarebbe importante per precisare il quadro.»
«Davvero non vedo come…»
«Verrei io a Madrid, naturalmente.»
«Non c'è nulla di cui parlare. Non vedevo mio padre da anni.»
«È proprio questo il punto. Non sono interessato al presente.»
«Ma non c'è davvero nulla!»
«Ci dorma sopra. La richiamerò domattina, non sarà una cosa lunga e potrebbe aiutarci molto.»
Jiménez farfugliò qualcosa e riagganciò. Quell'uomo era un avvocato, Falcón lo sapeva, ma non gli aveva suggerito questa impressione: troppo confuso e insicuro. Spense la lampada e, uscito nel patio, inspirò l'aria fresca della sera e il silenzio: quasi silenzio, perché i rumori della città giungevano come un rombo lontano in quel centro buio e concavo della casa. Si stirò, respirò a pieni polmoni allargando le braccia e tra gli archi della galleria sovrastante il patio vide ciò che Eloisa Gómez avrebbe definito «ombre che si muovevano». Corse su per i gradini, frugandosi in tasca alla ricerca della chiave che apriva il cancello di ferro battuto in cima alla scala, poi corse fino a un secondo cancello che dava sull'altro tratto di galleria davanti allo studio di suo padre. Nessuno. Tornò all'arco dove gli era parso di intravedere il movimento e si affacciò sul patio. L'acqua nella fontana, ferma e nera come una pupilla, fissava il cielo. Solo stanchezza, pensò, serrando le palpebre.
Uscì di casa dal portoncino ritagliato nel massiccio portale di legno con le borchie di ottone, l'entrata di quella casa troppo grande per lui sulla calle Bailén. Troppo grande per lui. Sì, e troppo grandiosa per un uomo nella sua posizione, ma ogni volta che pensava di venderla, si arenava davanti al pensiero di ciò che questo avrebbe comportato. Prima di tutto avrebbe dovuto eseguire le istruzioni contenute nel testamento di suo padre, una cosa che rimandava da tempo, e cioè vuotare lo studio e bruciare tutto, fino all'ultimo schizzo. Non poteva farlo. Non lo aveva fatto, non era nemmeno mai entrato nello studio da quando suo padre era morto, due anni prima. Non aveva nemmeno mai aperto quell'ultimo cancello di ferro battuto nella galleria.
L'avvocato di suo padre era morto tre mesi dopo la lettura del testamento e a Paco e a Manuela non importava un accidente di niente, erano troppo impegnati con la loro parte di eredità: la finca per l'allevamento di tori, a Las Cortecillas verso la Sierra de Aracena, di Paco e la villa a El Puerto de Santa Maria di Manuela. Non avevano avuto con il padre lo stesso rapporto che aveva avuto lui. Javier aveva cominciato a telefonargli quasi tutti i giorni dopo che l'uomo aveva avuto un infarto e, dopo il suo trasferimento a Siviglia, se non si trovavano per andare al ristorante la domenica a mezzogiorno, si vedevano comunque per un fino , tanto per farlo uscire di casa. Avevano quasi ritrovato lo stesso grado di intimità del tempo in cui lui era un ragazzo, agli inizi degli anni 70, unico figlio rimasto a casa dopo che Manuela aveva levato le tende per andare a Madrid a studiare veterinaria e dopo che Paco si era installato nell'azienda agricola, una volta ristabilito dalla grave ferita a una gamba inferta da un toro quando Paco era novillero a La Maestranza, a Siviglia. Un incidente che aveva posto fine alle sue speranze di carriera come torero.
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