«Stai facendo del sentimentalismo, come quel giornalista», commentò Javier. «Io mi limito ad aiutare Pepe con i tori.»
«Sei fiero di lui come non lo è nemmeno suo padre.»
«Non sei giusta», obiettò Falcón e poi, per cambiare argomento: «Oggi mi è capitato di vedere una foto di papà…»
«Devi trovarti una donna, Javier», lo interruppe Manuela. «Non va bene questo star lì a guardare i vecchi album.»
«Era una fotografia trovata nello studio di Raúl Jiménez. Si trovava a Tangeri più o meno nello stesso periodo. Papà non si era accorto di essere fotografato.»
«Stava facendo qualcosa di imperdonabile?»
«La data era agosto 1958 e lui stava baciando una donna…»
«Non dirmi… non era Mamá?»
«Proprio così.»
«E per te è stato un colpo?»
«Sì», rispose lui. «Era Mercedes.»
«Papà non era un angelo, Javier.»
«Mercedes era ancora sposata a quel tempo, no?»
«Non lo so», disse Manuela, scacciando ogni cosa con la sua sigaretta. «Era la Tangeri di quei giorni, tutti quanti su di giri a scopare di qua e di là.»
«Puoi cercare di ricordare? Eri più grande di me, io non avevo nemmeno quattro anni.»
«Che importanza può avere?»
«Penso soltanto che potrebbe essere di aiuto.»
«Per l'omicidio di Raúl Jiménez?»
«No, no, non credo. È sul piano personale, voglio solo chiarire le cose, tutto qui.»
«Sai, Javier, forse non dovresti vivere da solo in quella grande casa.»
«Ho provato a viverci con qualcuno che non si può nominare.»
«Questo è il punto. Le vecchie case sono piene e alle donne non piace dividere il proprio spazio vitale a meno che non siano loro a volerlo fare.»
«A me piace vivere lì. Mi sento al centro delle cose.»
«Però non ci vai mai 'al centro delle cose', vero? Non conosci niente che non si trovi tra calle Bailén e la Jefatura. E la casa è davvero troppo grande per te.»
«Come lo era per papà?»
«Dovresti prenderti un appartamento come il mio… con l'aria condizionata.»
«L'aria condizionata?» ripeté Javier. «Sì, forse aiuterebbe. Aria purificata. Gli ultimi modelli non hanno un pulsante che dice: 'passato condizionato'?»
«Sei sempre stato un bambino strano. Papà avrebbe dovuto lasciarti fare l'artista.»
«Il che avrebbe risolto tutti i problemi, perché sarei stato talmente in bolletta che alla sua morte avrei dovuto vendere immediatamente la casa.»
Sopraggiunsero gli altri amici di Manuela e di Alejandro e Javier finì la birra. Si nascose dietro una barricata di scuse per evitare la cena: il lavoro, insistette più volte, una cosa che pochi di loro potevano capire, essendo bene al riparo dalle difficoltà del quotidiano.
Tornato a casa, cenò con cozze in salsa di pomodoro, fredde. Un piatto che gli aveva lasciato Encarnación, la quale sapeva che non si poteva mangiare bene senza una donna in casa. Bevve un bicchiere di vino bianco scadente e raccolse il sugo con un pezzo di pane raffermo. Non pensava a niente in particolare, eppure sentiva la mente affannata da un senso di precipitazione. Forse si stava scaricando dalle tensioni del giorno, si disse, ma dopo un po' si rese conto che stava piuttosto «caricando» qualcosa, come un nastro che si riavvolgesse rapidamente: Inés. Separazione. Divorzio. «Tu non hai cuore.» Trasloco in quella casa. Suo padre morente…
Fermò il nastro. Nella testa avvertì un deciso scatto. Andò a letto con troppe cose che avvenivano dentro di lui, sbatté contro un muro di sonno e fece il primo sogno che avrebbe ricordato da diversi anni a quella parte. Un sogno semplice. Era un pesce. Pensava di essere un grosso pesce, ma non poteva vedersi. Era pesce, consapevole soltanto dell'acqua che scorreva rapida intorno a lui e di una scintilla nell'occhio che stava inseguendo, il suo istinto gli diceva di inseguirla. Era veloce. Così veloce che non vide mai ciò che inseguiva istintivamente. Lo ingoiò e continuò a nuotare. Solo che… dopo un momento avvertì uno strattone, il primo strappo nelle viscere, poi saltò fuori dall'acqua.
Sveglio, si guardò intorno, stupito di ritrovarsi nel suo letto. Si premette la mano sull'addome. Quei frutti di mare…?
Venerdì 13 aprile 2001, casa di Falcón,
calle Bailén, Siviglia
Si alzò presto; quel peso sullo stomaco era svanito. Passò un'ora sulla cyclette, regolata grazie al computer per eseguire un circuito che simulava un terreno difficile, e la concentrazione richiesta per sfondare la barriera della fatica lo aiutò a pianificare le ore successive. Non sarebbe stata una giornata di vacanza.
Prese un taxi fino alla estación de Santa Justa e bevve un café solo al bar della stazione. L'AVE, il treno ad alta velocità per Madrid, partiva alle 9.30. Aspettò fino alle nove, poi telefonò a José Manuel Jiménez, che rispose come se fosse stato lì ad aspettare lo squillo.
« Diga. »
Falcón si presentò di nuovo e chiese un appuntamento.
«Non ho niente da dirle, Inspector Jefe. Niente che possa aiutarla. Mio padre e io non avevamo più alcun rapporto da trent'anni.»
«Davvero?»
«Tra noi è successo molto poco.»
«Vorrei parlare con lei di questo, ma non al telefono», insistette Falcón. Jiménez non reagì. «Posso essere da lei all'una e andarmene prima di pranzo.»
«Davvero non mi è comodo.»
Falcón era preso da un desiderio sfrenato di parlare con quell'uomo, ma poteva farlo solo nel suo tempo libero. Insistette.
«Sto conducendo un'indagine su un omicidio, signor Jiménez. Un assassinio non è mai comodo.»
«Non posso fare nessuna luce sul suo caso, Inspector Jefe.»
«Devo conoscere lo sfondo, il passato.»
«Chieda a sua moglie.»
«E che cosa sa della sua vita prima del 1989?»
«Perché risalire a tanto tempo fa?»
Ridicolo battagliare così per parlare con quell'uomo. Falcón divenne più determinato.
«Ho un modo curioso ma efficace di procedere nelle mie indagini, signor Jiménez», replicò, tanto per farlo restare all'apparecchio. «E sua sorella? La vede mai?»
L'etere sibilò per un'eternità.
«Mi richiami tra dieci minuti», disse l'altro e riattaccò.
Per dieci minuti Falcón passeggiò avanti e indietro nell'atrio della stazione, pensando a una nuova strategia. Al momento di richiamare aveva una serie di domande allineate come proiettili in una cartucciera.
«L'aspetto all'una», disse Jiménez, e riagganciò.
Falcón comprò un biglietto e salì sul treno. A mezzogiorno l'AVE lo aveva consegnato alla estación de Atocha nel centro di Madrid. Prese la metropolitana per Esperanza, il che gli parve di buon auspicio, e da lì il tragitto fino all'appartamento di Jiménez fu breve.
José Manuel Jiménez lo fece entrare. Era più basso di Falcón, ma di corporatura più robusta e teneva la testa come se dovesse passare sotto una trave o portare sulle spalle un carico. Mentre parlava gli occhi saettavano di qua e di là sotto sopracciglia massicce e scure che evidentemente non erano affidate alle cure della moglie. L'effetto, in luogo di essere furtivo, era di deferenza. Prese il soprabito di Falcón e lo guidò lungo un corridoio dal pavimento di legno fino allo studio, lontano dalla cucina e dalle voci della famiglia, camminando piegato in avanti, come se stesse trascinando una slitta.
Diversi tappeti marocchini ricoprivano il parquet dello studio; la scrivania, in stile inglese, era di noce. Alle pareti, fino alla finestra, scaffali di libri rilegati, strumenti di lavoro di un avvocato. Il caffè fu offerto e accettato. Nei minuti in cui venne lasciato solo, Falcón ispezionò le fotografie di famiglia posate su un mobile con le ante di vetro. Riconobbe Gumersinda con i due figli piccoli. Nessuna di Raúl, e nessuna della figlia in cui la ragazzina avesse più di dodici anni. Le altre, che ritraevano la famiglia di José Manuel Jiménez in varie epoche, culminavano con due foto dei figli diplomati.
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