Presi una lattina di acqua tonica e una confezione di Fig Newtons dalla dispensa e decisi di parlare prima con Ramirez.
Stark Street iniziava dal fiume, a nord del palazzo del governatore, e proseguiva verso nord-est. Brulicante di piccoli negozi, bar, locali per lo spaccio di crack e di tetre case a schiera a tre piani, si snodava per quasi un miglio. Gran parte delle case erano state trasformate in appartamenti o in abitazioni da affittare. Poche avevano l’aria condizionata, tutte erano sovraffollate. Con il caldo, gli inquilini sciamavano sui gradini all’ingresso e agli angoli della strada, in cerca di refrigerio e di diversivi. Alle dieci del mattino, la via era ancora relativamente tranquilla.
Al primo giro mi sfuggì la palestra, ricontrollai l’indirizzo sulla pagina che avevo strappato dall’elenco telefonico e tornai indietro guidando lentamente per leggere i numeri civici. Poi vidi l’insegna, STARK STREET GYM, scritta in lettere nere su una vetrina. Non era un granché come insegna, ma suppongo che non se ne curassero affatto. Dovetti allontanarmi di due isolati prima di trovare un parcheggio.
Chiusi a chiave la Nova, misi a tracolla la grande borsa nera e mi avviai. Ormai avevo dimenticato il fiasco con la signora Morelli e mi sentivo davvero disinvolta mentre, indossando un vestito adeguato all’occasione, mi portavo sulle spalle il mio armamentario da bounty hunter. Era imbarazzante doverlo ammettere, ma mi sentivo a mio agio nel mio nuovo ruolo: non c’era niente di meglio che portare in giro un paio di manette per metter un po’ di brio nell’andatura di una donna.
La palestra era situata al centro dell’isolato, oltre una carrozzeria. Le porte del garage erano aperte e, quando attraversai il piazzale di cemento, dall’interno iniziarono a guaire come gatti in calore e a schioccare baci al mio indirizzo. La mia indole m’imponeva di rispondergli per le rime ma, in nome della discrezione, tenni la bocca chiusa e affrettai il passo.
Sull’altro lato della strada una figura indistinta si ritrasse da una finestra al terzo piano. Il movimento attirò la mia attenzione. Qualcuno mi sorvegliava. Non c’era da sorprendersi, avevo percorso la via non una, ma due volte. Quel mattino si era staccata la marmitta della mia auto e il rombo del motore rimbalzava sui muri di Stark Street. La mia non si poteva certo definire una missione segreta.
La porta della palestra dava su un piccolo atrio con una scala d’accesso al piano superiore. Le pareti del pozzo della scala erano dell’usuale color verde, ricoperte di graffiti dipinti con lo spray e di impronte che vi si erano accumulate in vent’anni. Il locale emanava un odore sgradevole: il tanfo di urina che esalava dai gradini inferiori era misto all’odore rancido del sudore stagnante e al lezzo di effluvi corporei. Il secondo piano aveva l’aspetto di un magazzino e non era meglio del primo.
Un gruppetto di uomini lavorava ai pesi. Il ring era deserto, ai sacchi non c’era nessuno. Conclusi che dovevano essere tutti quanti fuori, in cerca di guai o a rubare auto. Fu l’ultima osservazione amena che mi concessi. Al mio ingresso l’attività languiva, e se mi ero sentita a disagio per la strada lì era molto peggio. Mi sarei aspettata che un campione fosse circondato da un’aura di professionalità, non avevo previsto un’atmosfera carica di ostilità e diffidenza. Ero solo un’ingenua donna bianca che era entrata in una palestra di neri, e se quel silenzio ostile fosse stato più minaccioso, avrei girato i tacchi e mi sarei precipitata giù per le scale come un’invasata.
Assunsi una posa decisa, più per non svenire per la paura che per impressionare i ragazzi, e tirai su la tracolla del borsone. «Cerco Benito Ramirez.»
Un’enorme montagna di muscoli si alzò da una panca. «Sono io Ramirez.»
Era alto circa due metri, aveva una voce insinuante, le labbra piegate in un sorriso sognante. L’effetto generale era raccapricciante: la voce e il sorriso contrastavano con lo sguardo sfuggente e calcolatore.
Attraversai la stanza e gli tesi la mano. «Stephanie Plum.»
«Benito Ramirez.»
La sua stretta era troppo cordiale, troppo prolungata. Più una carezza che una stretta, e sgradevolmente sensuale. Lo fissai dritto negli occhi, assai ravvicinati e con le palpebre cascanti. Cominciai a pormi delle domande sui pugili: fino a quel momento avevo pensato che il loro fosse uno sport basato sulla prontezza e sull’aggressività, che mirassero a vincere senza mutilare necessariamente l’avversario. Sembrava che invece Ramirez godesse a uccidere. C’era qualcosa nel suo sguardo ottuso che suggeriva la presenza del male; i suoi occhi erano come dei buchi neri che risucchiavano tutto e nulla facevano trasparire. Il sorriso, un po’ ebete, aveva un che di morboso nella sua dolcezza e lasciava intravedere la follia. Mi chiesi se non si trattasse di una posa per impaurire gli avversari prima del match. Per studiata che fosse, mi metteva i brividi.
Cercai di liberare la mano ma la sua stretta si rafforzò.
«Allora, Stephanie Plum, che cosa posso fare per te?» mi chiese con la sua voce di velluto.
Come dipendente di E.E. Martin avevo avuto a che fare con la feccia, ma avevo imparato a farmi valere pur restando gradevole e professionale. Il mio viso e la mia voce dicevano a Ramirez che ero un tipo cordiale. Le parole un po’ meno. «Se mi lasci andare la mano, ti do il mio biglietto da visita.»
Il sorriso gli rimase incollato sulla faccia, ora più amabile e curioso che folle. Gli diedi il biglietto da visita e lo osservai mentre lo leggeva.
«Agente incaricato della cattura dei latitanti», disse chiaramente divertito. «Un lavoro importante per una ragazzina.»
Non mi ero mai considerata una ragazzina finché non m’ero trovata vicino a Ramirez. Sono alta un metro e settanta e ho un’ossatura robusta, che ho ereditato dal buon ceppo ungherese dei Mazur, contadini con il fisico perfettamente costruito per lavorare nei campi di paprika, trascinare l’aratro e sfornare bambini come conigli. Correvo e saltavo periodicamente i pasti per mantenermi snella, ma continuavo a pesare sui sessanta chili. Non ero certo robusta, ma neppure minuta. «Cerco Joe Morelli. L’hai visto?»
Ramirez scosse la testa. «Non conosco Joe Morelli. So soltanto che ha sparato a Ziggy.» Guardò gli altri uomini e chiese: «Qualcuno di voi ha visto questo Morelli?»
Nessuno rispose.
«Mi è stato detto che c’era un testimone alla sparatoria e che è sparito», ripresi. «Hai idea di chi potesse essere?»
Di nuovo nessuna risposta.
Non mi arresi. «Che mi dici di Carmen Sanchez? La conosci? Ziggy ti ha mai parlato di lei?»
«Fai un sacco di domande», osservò Ramirez.
Eravamo in piedi vicino alle grandi finestre vecchio stile della stanza e per nessun’altra ragione, se non per istinto, spostai la mia attenzione all’edificio di fronte. Ecco di nuovo la figura indistinta dietro una finestra del terzo piano. Un uomo, mi parve. Non avrei potuto dire se fosse bianco o nero. Non che avesse importanza.
Ramirez mi tirò per la manica della giacca. «Ti andrebbe una Coca? Abbiamo il distributore. O se preferisci ti offro dell’acqua tonica.»
«Grazie, ma mi aspetta una mattinata intensa e devo andare. Se vedi Morelli, ti pregherei di avvertirmi.»
«Di solito le ragazze sono onorate di sentirsi offrire una bibita dal campione.»
Non io, pensai. La sottoscritta pensava che il campione fosse fuori di testa, forse. E non le piaceva affatto l’atmosfera della palestra.
«Mi piacerebbe restare, ma ho un appuntamento per il pranzo», spiegai. Con una scatola di Fig Newtons.
«Non fa bene affannarsi tanto. Dovresti fermarti e rilassarti. Lascia perdere l’appuntamento.»
Spostai il mio peso cercando di allontanarmi di qualche centimetro, mentre dicevo la bugia. «Veramente si tratta di un appuntamento d’affari con il sergente Gazarra.»
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