Infilai la mano nella borsa, tirai fuori la pistola e la puntai contro il petto di Morelli. «Sei in arresto.»
Lui sbarrò gli occhi attonito. «Hai una pistola? Perché non l’hai usata contro Ramirez? Gesù, l’hai colpito con la borsa come una scolaretta! Perché non gli hai puntato la dannata pistola?»
Mi accorsi di arrossire. Che dire? La verità era troppo imbarazzante. E controproducente. Ammettere con Morelli di aver avuto paura più della pistola che di Ramirez non avrebbe certo giovato alla mia credibilità come agente.
Non ci volle molto perché Morelli lo intuisse. Con un grugnito di disgusto spinse da parte la canna dell’arma e mi prese la pistola. «Se non la usi, non dovresti portarla. Hai il porto d’armi per circolare con una pistola nascosta nella borsa?»
«Sì», risposi, ma ero poco convinta che il documento fosse legale.
«Dove hai preso il permesso?»
«Me l’ha procurato Ranger.»
«Ranger Manoso? Cristo, probabilmente lo ha fabbricato nella sua cantina.» Morelli estrasse i proiettili e mi restituì la pistola.«Cercati un altro impiego. E sta’ lontana da Ramirez. È pazzo. È stato incriminato per stupro in tre occasioni e ogni volta è stato assolto perché la vittima è immancabilmente scomparsa.»
«Non sapevo…»
«C’è un sacco di cose che non sai.»
Il suo atteggiamento cominciava a irritarmi. Capivo anche troppo bene che avevo un mucchio di cose da imparare su come arrestare i criminali. Non avevo bisogno, però, di quell’aria di superiorità sarcastica di Morelli. «Qual è il tuo punto di vista?» domandai.
«Lascia perdere il mio caso. Vuoi fare carriera nell’ambiente come tutore della legge? Bene, accomodati pure, ma non esercitarti con me. Ho abbastanza problemi senza dovermi preoccupare di salvarti il culo.»
«Nessuno te l’ha chiesto. Me la sarei cavata da sola, se tu non avessi interferito.»
«Tesoro, non saresti stata capace di trovare il tuo culo neanche con tutte e due le mani.»
Le mie palme scorticate bruciavano in modo infernale. Mi doleva la testa all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Mi tremavano le ginocchia. Volevo tornare a casa e ficcarmi sotto una doccia calda per cinque o sei ore, finché non mi fossi sentita di nuovo forte e pulita. Volevo mollare Morelli e raccogliere le idee. «Vado a casa», annunciai.
«Buona idea», approvò lui. «Dov’è la tua auto?»
«Fra Stark Street e Tyler.»
Lui si appiattì di fianco alla porta e gettò una rapida occhiata fuori. «Via libera.»
Avevo le ginocchia irrigidite e il sangue si era seccato coagulandosi su quel che rimaneva dei collant. Non mi pareva il caso di zoppicare, non dovevo indulgere in una simile debolezza davanti a uno come Morelli. Così strinsi i denti senza emettere un gemito. Quando raggiungemmo l’angolo, mi resi conto che lui mi aveva accompagnato fino a Stark Street. «Non ho bisogno di una scorta», dichiarai. «Sto bene.»
Lui mi teneva la mano sul gomito, guidandomi. «Non illuderti, non m’interessa tanto la tua salute quanto il fatto che tu esca dalla mia vita. Voglio essere certo che tu te ne vada. Voglio solo vedere il tubo di scappamento della tua macchina allontanarsi nel tramonto.»
Buona fortuna, pensai. Il tubo di scappamento e la marmitta della mia auto erano da qualche parte sulla Route 1.
Raggiungemmo Stark e io barcollai alla vista della mia auto. Era rimasta parcheggiata sulla strada per meno di un’ora e in quel lasso di tempo era stata completamente pitturata con lo spray. Per la maggior parte di rosa e verde, con le ovvie scritte oscene su entrambi i lati. Controllai la targa e guardai sul sedile posteriore cercando il pacco di Fig Newtons. Sicuro, era proprio la mia macchina.
Una nuova umiliazione che si aggiungeva alle altre della giornata. Me ne infischiai. Ero come intorpidita. E immunizzata dagli affronti. Cercai le chiavi nella borsa, le trovai e le infilai nella serratura della portiera.
Morelli si dondolava sui talloni, le mani in tasca, un sorrisetto che gli affiorava sulle labbra. «Certa gente si diverte così.»
«Crepa!»
Morelli piegò la testa e rise forte. Una risata fragorosa e profonda, quasi contagiosa, se non fossi stata in condizioni pietose. Aprii la portiera, salii al volante, girai la chiavetta dell’accensione, mollai un pugno al cruscotto e lasciai Joe a tossire nella nuvola dello scarico dello scappamento, in un rumore così assordante da squarciargli i visceri.
Ufficialmente abitavo al confine orientale della città di Trenton, ma in realtà il mio quartiere si trovava più nel territorio di Hamilton che in quello di Trenton. L’edificio in cui abitavo era un brutto cubo di mattoni rossi, costruito prima dell’avvento dell’aria condizionata centralizzata e delle finestre con i doppi vetri. I diciotto appartamenti dello stabile erano distribuiti su tre piani. Secondo lo standard moderno non era un condominio di lusso. Non aveva la piscina o i campi da tennis, l’ascensore era piuttosto inaffidabile. Il bagno era arredato con servizi color giallo senape. Gli accessori della cucina erano decisamente anonimi.
Di positivo c’era che l’appartamento era stato costruito con materiale resistente e solido. Nessun suono filtrava attraverso i muri, le stanze erano ampie e luminose, i soffitti alti. Abitavo al secondo piano e le mie finestre si affacciavano su un piccolo parcheggio privato. Non c’erano balconate, ma ero abbastanza fortunata da avere una vecchia scala antincendio vicino alla finestra della camera da letto. L’ideale per far asciugare le calze e per sedersi all’aperto nelle afose serate estive.
Ma la cosa più importante era che il brutto edificio di mattoni non faceva parte di un complesso di edifici altrettanto brutti e disposti a casaccio. Sorgeva in una via affollata di piccoli negozi e confinava con un quartiere di case modeste. Come vivere nella cittadella… ma meglio. Il fornaio era solo a un isolato.
Parcheggiai la macchina ed entrai dall’ingresso posteriore. Poiché Morelli non era nei paraggi, non dovevo mostrarmi forte e coraggiosa, perciò mi diressi verso il mio appartamento zoppicando e imprecando. Feci la doccia, mi disinfettai con ciò che trovai nella cassetta del pronto soccorso e indossai un paio di shorts con una maglietta. Le mie ginocchia erano spellate e ammaccate; le abrasioni stavano già assumendo una tinta violacea. I gomiti erano nelle stesse condizioni. Mi sentivo proprio come una bimba caduta dalla bicicletta, che un minuto prima gridava a distesa «Posso farcela, posso farcela!» e, improvvisamente, come una sciocca, si ritrovava a terra con le ginocchia scorticate.
Mi gettai sul letto supina, le braccia e le gambe distese. Era la posizione che assumevo quando dovevo riflettere sull’inutilità delle cose. Aveva certi vantaggi, naturalmente. Potevo sonnecchiare mentre aspettavo che mi venisse in mente qualche idea brillante. Giacqui sul letto a lungo, o così mi sembrò. Nessuna idea brillante mi si affacciò alla mente ed ero troppo agitata per dormire.
Non potevo fare a meno di rivivere la mia esperienza con Ramirez. Non ero mai stata aggredita da un uomo, prima. Né ci ero andata vicino. Quell’aggressione era stata a dir poco degradante, un’esperienza spaventosa. Ora che la situazione si era risolta, mi sentivo più tranquilla, ma anche violata e vulnerabile.
Considerai l’ipotesi di presentare un esposto alla polizia, ma la scartai immediatamente. Andare a piangere alla polizia non avrebbe certo giovato alla mia immagine di dura e abile bounty hunter. Non riuscivo a raffigurarmi Ranger che sporgeva una denuncia per lesioni.
Ero stata fortunata, conclusi. Me l’ero cavata con qualche graffio. Grazie a Morelli.
Quest’ultima ammissione mi fece emettere un gemito. Essere salvata da Morelli era stato maledettamente imbarazzante. E ingiusto. Tutto considerato, non pensavo di essermi comportata tanto male. Mi era stato affidato quel caso da meno di quarantotto ore e avevo scovato il mio uomo per ben due volte. Vero, non ero riuscita ad arrestarlo, ma stavo ancora imparando. Nessuno si aspetta che uno studente d’ingegneria al primo anno costruisca un ponte perfetto. Pensavo di meritare la stessa indulgenza.
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