Mi cadde l’occhio su una chiazza di sostanza viscida che scivolava sulla porta. Ero sicura che non si trattava di tapioca. Trattenni un’imprecazione, mi affrettai a chiudere, tirai il chiavistello e agganciai la catena. Magnifico. Ero al lavoro da due giorni e uno psicopatico si era appena masturbato davanti alla mia porta.
Cose del genere non mi erano mai capitate quando lavoravo per E.E. Martin. Una volta un barbone mi aveva orinato sui piedi e di tanto in tanto qualcuno s’era calato i pantaloni alla stazione, ma c’era da aspettarselo se uno lavorava a Newark. Avevo imparato a non considerare certe cose come un affronto personale. Questa storia con Ramirez era un’altra faccenda. Mi metteva addosso una gran fifa.
Sobbalzai quando una finestra si aprì e si richiuse sopra di me. La signora Delgado faceva uscire il suo gatto per la notte, mi dissi. Controllati. Dovevo togliermi Ramirez dalla mente, perciò mi misi a cercare qualche oggetto da dare in pegno. Non era rimasto molto. Un walkman, un ferro da stiro, gli orecchini di perle del matrimonio, un orologio da cucina a forma di galletto, un poster incorniciato di Ansel Adam, due lampade da tavolo. Speravo che bastasse per pagare la bolletta del telefono e farmelo ricollegare. Non volevo trovarmi di nuovo intrappolata in casa senza la possibilità di chiedere aiuto.
Sistemai Rex nella sua gabbia, mi lavai i denti e infilai la camicia da notte. Andai a letto con tutte le luci accese.
La prima cosa che feci, svegliandomi la mattina dopo, fu controllare lo spioncino. Non avendo notato niente d’insolito, feci la doccia e mi vestii. Rex dormiva profondamente dopo una notte movimentata. Cambiai l’acqua della sua vaschetta e gli riempii la ciotola di quelle maledette noccioline. Mi sarebbe piaciuto bere una buona tazza di caffè, ma purtroppo non ne avevo in casa.
Andai alla finestra del soggiorno e sbirciai fuori nel parcheggio per vedere se ci fosse Ramirez, poi tornai a controllare lo spioncino. Feci scorrere il chiavistello tenendo la catena agganciata, cacciai fuori il naso dalla fessura e annusai. Non fiutai la presenza di pugili, perciò aprii completamente la porta. In mano stringevo la pistola. Il corridoio era vuoto. Chiusi a chiave la porta e mi avviai. L’ascensore si fermò al piano, con un sobbalzo, la porta si aprì e per poco non sparai alla vecchia signora Moyer. Chiesi scusa, spiegai che la pistola era un giocattolo e con aria furtiva scesi le scale per portare il primo carico di paccottiglia alla mia auto.
Quando Emilio aprì il banco dei pegni, ero in crisi d’astinenza da caffeina. Tirai sul prezzo degli orecchini, ma lo feci senza eccessiva fermezza e alla fine capii di essere stata imbrogliata. Non che m’importasse più di tanto. Avevo quello che mi occorreva, il denaro per un’arma non letale e per il telefono. Mi restava quanto bastava per concedermi un buon caffè e una tartina ai mirtilli.
Impiegai cinque minuti per deliziarmi della mia colazione, poi mi diressi agli uffici della compagnia dei telefoni. A un semaforo, qualcuno da un furgone fischiò forte. Dai gesti delle mani, immaginai che i due sul camioncino fossero entusiasti dei graffiti sulla mia auto. Non sentivo quello che dicevano per via del rumore assordante del motore. Meno male.
Notai una nebbia attorno a me e compresi che la macchina fumava. Non era la solita nuvoletta bianca di condensa che si forma con il freddo, questo era fumo denso e nero, che in assenza del tubo di scappamento usciva da sotto il sedere. Mollai un pugno sul cruscotto per vedere se gli indicatori funzionassero e si accese la spia rossa dell’olio. Mi fermai a una stazione di servizio all’angolo, comperai una lattina di lubrificante, la vuotai nella macchina e controllai l’astina dell’olio. Era ancora basso, perciò aggiunsi una seconda lattina.
Prossima fermata, la compagnia dei telefoni. Pagare la bolletta e chiedere che mi riallacciassero l’apparecchio fu piuttosto complicato, quasi come ottenere una green card. Alla fine spiegai che la mia vecchia nonna cieca viveva con me, che soffriva di frequenti attacchi cardiaci e che avere il telefono era questione di vita o di morte. Non credo che la donna dietro lo sportello mi credesse, ma dopo un po’ mi promise che qualcuno avrebbe provveduto a riallacciare l’apparecchio in giornata. Bel colpo. Se Ramirez fosse tornato, avrei chiamato la polizia. Inoltre intendevo acquistare una bomboletta spray da difesa. Non ci sapevo fare con la pistola, ma potevo cavarmela con una bomboletta.
Quando raggiunsi il negozio d’armaiolo, la spia dell’olio aveva ripreso a lampeggiare. Non si vedeva più fumo, perciò conclusi che l’indicatore si era bloccato. E chi se ne frega, pensai. Non avevo nessuna intenzione di spendere altri soldi per l’olio. Per ora la macchina doveva arrangiarsi; appena incassati i diecimila dollari del premio, le avrei comperato tutto l’olio che voleva… e poi l’avrei scaraventata giù da un ponte.
Avevo sempre immaginato che i proprietari dei negozi d’armi fossero tutti grandi e grossi, con berretti da baseball che reclamizzavano ditte di motociclette. Nella mia fantasia credevo che si chiamassero Bubba e Billy Bob. Invece, quel negozio era gestito da una donna che si chiamava Sunny. Era un tipo sulla quarantina con la pelle abbronzata, della tinta di un sigaro di qualità, i capelli crespi tinti color giallo canarino e una voce da fumatrice accanita. Portava orecchini di Strass, jeans attillati e aveva piccole palme dipinte sulle unghie.
«Bel lavoro», osservai, guardando le unghie.
«Opera di Maura, all’Hair Palace. È un genio per le unghie, fa delle cerette fantastiche, ti depila come una palla da bigliardo.»
«Me lo ricorderò.»
«Basta che chieda di Maura. Le dica che la manda Sunny. Che cosa posso fare per lei? È già rimasta senza munizioni?»
«Mi serve uno spray per autodifesa.»
«Che tipo usa?»
«Ce ne sono di vari generi?»
«Santo cielo, sì. Abbiamo una linea completa di spray.» La donna allungò la mano verso lo scatolone vicino a lei e tirò fuori parecchi pacchetti avvolti nel cellofane. «Questo è il Mace originale. Poi abbiamo il Pappergard, con lo spray ecologico, usata attualmente da molti dipartimenti di polizia. E infine il Sure Guard, un’autentica arma chimica. È capace di abbattere un uomo di cento chili in sei secondi. Agisce sul sistema nervoso. Basta che venga a contatto con la pelle e la persona colpita è KO. Non importa se è ubriaca o drogata. Uno spruzzo ed è finita.»
«Sembra pericoloso.»
«Può giurarci.»
«È letale? Lascia danni permanenti?»
«L’unico danno permanente per la vittima sarà il ricordo di un’esperienza umiliante. Naturalmente all’inizio si verificherà un principio di paralisi ma, spariti gli effetti, resterà vomito e un atroce mal di testa.»
«Non saprei. E se malauguratamente me lo spruzzo addosso?»
La donna fece una smorfia. «Cara, deve evitare di spruzzarsi.»
«Mi pare un po’ complicato.»
«Niente affatto. È semplice come premere un tasto. E poi lei è una professionista, ormai.» La donna mi diede un colpetto sulla mano. «Prenda il Sure Guard. Non se ne pentirà.»
Non mi sentivo una professionista, mi sentivo una perfetta idiota. Avevo sempre criticato i governi che usavano le armi chimiche, ed eccomi lì a comperare gas nervino da una donna che si faceva la ceretta ai peli del pube.
«Il Sure Guard si vende in diverse confezioni», riprese Sunny. «Io adopero il modello da diciassette grammi. Ha il suo anello di acciaio inossidabile, una bella custodia di pelle in tre colori, a scelta.»
«Accidenti!» fu il mio commento.
«Lo provi fuori all’aperto», suggerì Sunny. «Si assicuri di saperlo usare.»
Uscii dal negozio, tesi il braccio e spruzzai. Il vento cambiò, mi precipitai dentro sbattendo la porta.
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