Nessuno aveva prestato attenzione a nonna Mazur. Giocava ancora con la pistola, fingendo di prendere la mira. Mi ricordai che nella borsa c’era anche una scatola di munizioni, accanto agli assorbenti. Un lampo di terrore si insinuò nella mia mente. «Nonna, non avrai caricato la pistola…»
«Certo che l’ho caricata. E non ho inserito il colpo in canna, come ho visto fare alla televisione. Così non si può sparare per sbaglio.» Nonna Mazur armò la pistola per mostrarmi quanto era stata brava. Seguì un colpo assordante, una vampata uscì dalla canna e il pollo sobbalzò nel piatto di portata.
«Madre di Dio!» urlò la mamma balzando in piedi e rovesciando la sedia.
«Cribbio!» fece nonna Mazur. «Devo aver sbagliato.» Si chinò per esaminare l’arma. «Mica male per la prima volta che maneggio una pistola. Ho sparato a quel pollastro proprio nel groppone.»
Mio padre stringeva la forchetta nella mano, la sua faccia era rossa come un gambero.
Girai attorno al tavolo e con prudenza presi la pistola dalle mani di nonna Mazur. Estrassi i proiettili e rimisi il tutto nella borsa.
«Guarda hai rotto il piatto», frignò mia madre. «Faceva parte del servizio buono. Non riuscirò a sostituirlo.» Spostò il piatto e tutti noi fissammo in silenzio il foro nella tovaglia e il proiettile conficcato nel tavolo di mogano.
Nonna Mazur fu la prima a parlare. «La sparatoria mi ha messo appetito», dichiarò. «Qualcuno mi passi le patate.»
Tutto sommato, Bernie Kuntz se l’era cavata abbastanza bene, durante la serata. Non aveva fatto pipì nei pantaloni quando nonna Mazur aveva sparato al pollo, aveva divorato senza battere ciglio due porzioni dei temuti cavoletti di Bruxelles preparati da mia madre. Si era mostrato passabilmente gentile con me, anche se appariva chiaro che noi due non eravamo destinati a dividere un letto e che la mia era una famiglia di matti. Si era mostrato affabile a ragione, dopo tutto ero una donna che aveva bisogno di elettrodomestici. Le smancerie gli avrebbero fatto perdere qualche oretta di sera, ma le provvigioni che avrebbe incassato sugli ordini gli avrebbero fatto guadagnare una vacanza alle Hawaii. Il nostro era un incontro voluto dal cielo: lui voleva vendere, io volevo comprare e non disdegnavo certo la sua offerta di uno sconto del dieci per cento. Inoltre avevo saputo qualcosa sul conto di Ziggy Kulesza: acquistava la carne dal Sal Bocha, un tale che era più conosciuto come allibratore che come macellaio.
Accantonai l’informazione per servirmene in futuro. Ora sembrava insignificante, ma chissà che non potesse rivelarsi utile.
Ero al tavolo della mia cucina con un bicchiere di tè freddo e il dossier su Morelli. Cercavo di mettere insieme un piano d’azione. Avevo preparato una ciotola di popcorn per Rex; il criceto aveva le guance gonfie di cibo, gli occhi lucidi.
«Allora, Rex, che ne pensi? Credi che riusciremo ad acciuffare Morelli?» dissi.
Qualcuno bussò alla porta e sia io che Rex restammo perfettamente immobili con le antenne radar in funzione. Non aspettavo nessuno. I miei vicini erano quasi tutti persone anziane e io non avevo amici fra loro. Comunque, i miei vicini non avrebbero mai bussato alla mia porta alle nove e mezzo di sera. Forse la signora Becker del terzo piano, se aveva sbagliato porta.
Continuarono a bussare, io e Rex voltammo la testa verso l’uscio. Era una solida porta di metallo, con uno spioncino, un chiavistello e una doppia catena. Quando il tempo era buono, lasciavo spalancate le finestre notte e giorno, ma tenevo sempre la porta chiusa. Neppure Annibale con i suoi elefanti sarebbe riuscito a passare dalla mia porta, ma le finestre costituivano una pacchia per qualsiasi idiota in grado di salire su una scala di sicurezza.
Coprii la ciotola di popcorn con un tegame perché Rex non potesse venir fuori dalla sua gabbia e andai a dare un’occhiata. Avevo la mano sulla maniglia, quando i colpi cessarono. Guardai attraverso lo spioncino e vidi soltanto buio. Qualcuno vi teneva appoggiato un dito. Non era un buon segno. «Chi è?» domandai.
Una risata sommessa dietro la porta. Balzai indietro. La risata fu seguita da una sola parola. «Stephanie.»
Era una voce assolutamente inconfondibile, melodiosa e beffarda. Ramirez.
«Sono venuto a giocare con te, Stephanie», canticchiò lui. «Sei pronta?»
Mi si piegarono le ginocchia, avevo un vuoto allo stomaco. «Vattene o chiamo la polizia.»
«Non puoi chiamare nessuno. Il tuo telefono non funziona, lo so perché ho provato a comporre il numero.»
I miei genitori non hanno mai capito il mio desiderio d’indipendenza. Sono convinti che la mia vita sia segnata dall’angoscia e dalla solitudine; persuaderli del contrario è fiato sprecato. In realtà non sono quasi mai angosciata. A volte, mi capita a causa di uno di quegli orribili insetti con un’infinità di zampette. Secondo me, il solo ragno buono è quello morto; i diritti delle donne non valgono un accidente se poi non possono chiedere a un uomo di schiacciare scarafaggi al posto loro. Non mi preoccupo che gli skinhead possano buttarmi giù la porta a calci o che riescano a entrare in casa dalla finestra. In genere preferiscono prendere di mira i quartieri più vicini alla stazione. Le rapine e i saccheggi di auto sono rari dalle mie parti e quasi mai si concludono con un omicidio.
Finora, i soli momenti critici che avevo vissuto erano legati al fatto — non molto frequente in verità — che mi svegliavo nel cuore della notte terrorizzata da un’improbabile invasione di… fantasmi, orchi, vampiri, extraterrestri. In preda alla mia sfrenata fantasia, rimanevo a letto respirando a malapena e aspettando di levitare. Devo ammetterlo, forse mi avrebbe giovato un po’ di compagnia nell’attesa, ma quale altro essere umano, fatta eccezione per Bill Murray, mi sarebbe stato d’aiuto nel caso di un attacco di spettri? Fortunatamente non sono mai stata vittima di una rotazione del collo a centottanta gradi, né sono mai stata disintegrata dai marziani, né ho mai ricevuto l’onore di un’apparizione di Elvis. L’unica volta che mi ero avvicinata a un’esperienza extracorporea era stato quando Joe Morelli aveva posato su di me le sue labbra, quattordici anni prima, dietro la vetrina dei bignè.
La voce di Ramirez mi giunse attraverso la porta. «Non mi va di lasciare le cose a metà con una donna, Stephanie Plum. Non mi piace che una donna scappi via dal campione.»
Lui afferrò la maniglia della porta e per un attimo mi balzò il cuore in gola. La porta resistette e il mio polso tornò normale.
Respirai profondamente e decisi che la cosa migliore era ignorarlo. Non volevo mettermi a gridare con lui e non mi pareva una buona mossa quella di peggiorare le cose. Subito chiusi e bloccai le finestre del soggiorno, tirai le tende. Corsi in camera da letto e mi domandai se non dovessi usare la scala di sicurezza per andare a chiedere aiuto. In un certo senso era ridicolo dare maggior peso alla minaccia. Non è una faccenda grave, mi dissi. Niente di cui preoccuparsi. Roteai gli occhi. Non c’era da avere paura… di un pazzo criminale che pesava cento chilogrammi e che stava davanti alla mia porta, insultandomi.
Mi portai la mano alla bocca per soffocare un gemito isterico. Niente panico, mi ordinai. Prima o poi i miei vicini avrebbero cominciato a diventare curiosi e Ramirez sarebbe stato costretto ad andarsene.
Tirai fuori la pistola dalla borsa e tornai alla porta per dare un’altra occhiata. Lo spioncino era scoperto e il corridoio sembrava deserto. Appoggiai l’orecchio all’uscio e ascoltai. Niente. Feci scorrere il chiavistello e socchiusi la porta, senza sganciare la grossa catena, impugnai la pistola. Ramirez non si vedeva. Staccai la catena e diedi un’occhiata nel corridoio. Tutto tranquillo. Lui se n’era andato.
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