Janet Evanovich - Bastardo numero uno

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A corto di soldi, Stephanie Plum rimedia un lavoro, nella società di assicurazioni del cugino, come “cacciatrice di teste”, con il compito di consegnare alla polizia tutti gli arrestati rilasciati su cauzione che non si sono presentati in tribunale per il processo. Il suo primo caso è però quello di un agente di polizia ingiustamente accusato di omicidio, un ex compagno di liceo di Stephanie, al cui Anche pubblicato come “Tutto per denaro”.

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«Questo è il momento più adatto», dissi e fu uno choc comprendere che facevo sul serio. Non era una spacconata. Ero attanagliata da una furia fredda e implacabile, che mi chiudeva la bocca dello stomaco.

«Adesso ci sono i poliziotti, sgualdrina. Non vengo da te quando ci sono i piedipiatti. Capiterò quando sei sola e non mi aspetti. Così avremo tanto tempo per stare insieme.»

La comunicazione fu interrotta.

«Gesù Cristo!» esclamò l’agente in divisa. «È pazzo.»

«Sa chi era?»

«Temo di sì.»

Staccai il nastro dalla segreteria e scrissi il mio nome e la data sull’etichetta. La mano mi tremava con una violenza tale che la calligrafia era quasi illeggibile.

Una radio gracchiò dal soggiorno. Sentivo un mormorio di voci nella mia camera. Voci meno frenetiche, il ritmo dell’attività era diminuito. Mi guardai e vidi che ero coperta del sangue di Lula. Mi aveva inzuppato la maglietta e gli shorts, si stava coagulando sulle mani e sui piedi nudi. Anche il telefono, il pavimento e il banco della cucina erano macchiati di sangue.

Il poliziotto e il medico si scambiarono un’occhiata. «Forse sarebbe bene che si levasse di dosso quel sangue», suggerì il dottore. «Che ne dice di una doccia?»

Mentre andavo in bagno, guardai Lula. Stavano per portarla via. Era assicurata alla barella con le cinghie e coperta con un lenzuolo e una coperta. «Come sta?» m’informai.

Un membro della squadra del pronto intervento spinse avanti la barella. «È viva», rispose.

Quando uscii dalla doccia i barellieri e il medico se n’erano andati. Erano rimasti due agenti in divisa e quello che aveva parlato con me in cucina stava conferendo con un poliziotto in borghese nel soggiorno. Entrambi prendevano appunti. Mi vestii rapidamente, senza asciugarmi i capelli. Ero ansiosa di fare la mia deposizione e farla finita. Volevo andare all’ospedale a trovare Lula.

L’agente in borghese si chiamava Dorsey. L’avevo già visto, probabilmente da Pino’s. Era un tipo di statura media, corporatura normale e si avvicinava alla cinquantina. Era in maniche di camicia, con un paio di pantaloni di tela e mocassini. Notai che teneva il nastro della segreteria telefonica nel taschino della camicia. Reperto A. Gli riferii l’incidente nella palestra, omettendo il nome di Morelli e lasciando credere a Dorsey che l’identità del mio salvatore mi era rimasta sconosciuta. Se la polizia preferiva credere che Morelli aveva lasciato la città, per me andava bene. Non avevo perso le speranze di arrestarlo e di riscuotere il mio denaro.

Dorsey prese un sacco di appunti e guardò l’agente di pattuglia con aria d’intesa. Non sembrava sorpreso. Suppongo che quando uno lavora nella polizia da parecchio tempo, non si sorprenda di nulla.

Quando se ne furono andati, spensi la caffettiera, chiusi e feci scattare la serratura della finestra della camera, afferrai il borsone e, drizzando le spalle, mi preparai ad affrontare ciò che mi aspettava nel corridoio. Dovevo farmi strada passando davanti alla signora Orbach, il signor Grossman, la signora Feinsmith, il signor Wolesky e chissà quanti altri. Avrebbero voluto sapere i dettagli e io non ero dell’umore migliore per fornire particolari sull’accaduto.

A testa china, borbottai qualche scusa e puntai direttamente verso le scale. Sfrecciai fuori dal palazzo e corsi verso la Cherokee.

Imboccai la St. James fino a Olden, tagliai attraverso Trenton e puntai in direzione di Stark Street. Sarebbe stato molto più facile andare direttamente all’ospedale St. Francis, ma volevo cercare Jackie. Rombai giù per Stark Street, passai davanti alla palestra senza voltarmi. Per quello che mi riguardava, Ramirez era finito. Se fosse riuscito a sottrarsi alla legge anche stavolta, lo avrei sistemato io stessa. Magari tagliandogli il pisello con un coltello affilatissimo, se necessario.

Jackie stava uscendo dal Corner Bar , dove immaginai che avesse fatto colazione. Frenai di colpo e sporgendomi dalla portiera le gridai: «Sali!»

«Che succede?»

«Lula è all’ospedale. Ramirez l’ha massacrata.»

«Oh Dio!» piagnucolò Jackie. «Avevo tanta paura, me lo sentivo. È grave?»

«Non lo so. L’ho trovata sulla scala antincendio di casa mia. Ramirez l’aveva lasciata legata alla ringhiera. Un messaggio diretto a me. Lula era svenuta.»

«Ero là quando è venuto a prenderla. Lei non voleva andare, ma non si dice no a Benito Ramirez. Il protettore di Lula l’avrebbe picchiata a sangue.»

«Già. Be’, è stata picchiata a sangue, comunque.»

Trovai posto per parcheggiare a Hamilton, a un isolato dall’ingresso del pronto soccorso. Inserii l’antifurto e con Jackie partii al trotto. Lei si trascinava dietro la sua enorme stazza, ma non respirava affannosamente quando varcammo le doppie porte a vetri. Evidentemente saltare da un letto all’altro tutto il giorno mantiene in forma.

«Una ragazza di nome Lula è stata portata qui poco fa con un’ambulanza», dissi all’impiegata.

Lei mi guardò, poi sbirciò Jackie. Che indossava calzoncini corti verdi che le coprivano a malapena il sedere, un top rosa e sandali di gomma. «Lei è della famiglia?» volle sapere l’impiegata rivolgendosi a Jackie.

«Lula non ha famiglia, qui.»

«Bisogna che qualcuno riempia i moduli», decretò l’altra.

«Posso farlo io», replicò Jackie.

Riempiti i moduli, l’impiegata ci disse di sedere e aspettare. Obbedimmo in silenzio, sfogliando con gesti meccanici alcune riviste e osservando con distacco disumano i feriti che sfilavano l’uno dopo l’altro nel corridoio. Dopo mezz’ora chiesi nuovamente di Lula e mi risposero che era in radiologia. Quanto ci sarebbe rimasta? m’informai. L’impiegata non lo sapeva. Ci voleva un po’ di tempo, dopo di che un medico ci avrebbe avvertite. Riferii a Jackie.

«Uhh», fu il suo commento. «Naturale.»

Avevo voglia di un caffè, perciò lasciai Jackie ad aspettare e andai alla ricerca del bar. Mi dissero di seguire le impronte sul pavimento e ci sarei arrivata di sicuro. Trovai il bar, riempii un vassoio di cartone di pasticcini, vi aggiunsi due caffè doppi e due arance nel caso a Jackie e a me fosse venuta fame. Pensai che era improbabile, ma conclusi che era come premurarsi di portare un paio di mutandine pulite, in caso di un incidente d’auto. Meglio essere preparati.

Un’ora dopo apparve il dottore.

Guardò prima me, poi Jackie. Lei tirò su il top e tirò giù i calzoncini. Un gesto inutile.

«Lei è della famiglia?» domandò il medico a Jackie.

«Diciamo di sì», rispose la ragazza. «Come sta?»

«La prognosi è riservata, ma abbiamo speranze. Ha perso parecchio sangue e ha subito un trauma cranico. Ha ferite multiple, bisogna suturare. Sta per essere trasportata in chirurgia. Ci vorrà un po’ prima che la riportino nella sua stanza. Ora potete andare e tornare fra un’ora o due.»

«Io non mi muovo», decise Jackie.

Trascorsero due ore senza altre notizie. Avevamo mangiato tutti i pasticcini e stavamo per attaccare le arance.

«Non mi piace», disse Jackie. «Non mi va di stare rinchiusa in un ospedale. Questo posto puzza maledettamente di fagiolini in scatola.»

«Non ci sei abituata, vero?»

«Giusto.»

Non aggiunse altro e non insistetti. Mi spostai sulla sedia, mi guardai attorno e vidi Dorsey che parlava con l’impiegata. Il poliziotto annuiva, otteneva le rispose alle sue domande. L’impiegata indicò me e Jackie, Dorsey si avvicinò.

«Come sta Lula?» s’informò. «Novità?»

«È in chirurgia», risposi.

Lui sedette vicino a me. «Non siamo ancora riusciti a scovare Ramirez. Ha idea di dove possa essere? Ha detto niente di interessante prima che lei cominciasse a registrare?»

«Ha detto che mi aveva visto trascinare Lula dalla finestra. E che sapeva che la polizia era a casa mia. Doveva essere vicino.»

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