Non avrei permesso che accadesse una cosa simile. Chiamai Ranger a voce spiegata e partii all’inseguimento di Dodd. Che non mi precedeva di molto; per di più io avevo il vantaggio di portare le scarpe. Lui scivolò sull’erba fradicia, cadde su un ginocchio e allora gli piombai sulla schiena. Crollammo a terra tutti e due. Lui se ne uscì con un grugnito, mentre gli cascavano addosso sessanta chili di femmina fuori di sé dalla rabbia. Beh, facciamo sessantuno, ma non un grammo di più, lo giuro.
Dodd faticava a respirare. Gli strappai la pistola non per istinto di difesa, ma per un senso della proprietà. Era la mia pistola, maledizione. Mi tirai su e puntai la 38 in direzione di Dodd, impugnandola con tutte due le mani per nascondere il tremito. Non mi venne neppure in mente di controllare se c’erano i proiettili. «Non muoverti o sparo.»
Con la coda dell’occhio vidi apparire Ranger. Piantò il ginocchio sulla schiena di Dodd, fece scattare le manette e lo fece alzare.
«Questo figlio di buona donna mi ha sparato», ringhiò Ranger. «Ci crederesti? Uno sporco ladro d’auto mi ha sparato.» Spinse Dodd davanti a sé verso la strada. «Porto sempre un giubbotto antiproiettile e dove pensi che mi abbia colpito? È così maldestro e fifone che mi spara a una gamba!»
Guardai la gamba del mio partner e per poco non svenni.
«Corri avanti e chiama la polizia», ordinò Ranger. «E chiama Al al garage perché venga a prendere la mia auto.»
«Sei sicuro di star bene?»
«È una ferita superficiale, niente di grave.»
Feci le telefonate, ritirai la mia borsa e oggetti vari dalla casa di Dodd e aspettai con Ranger. Legammo il ricercato come un salame, a faccia in giù nel fango. Ranger e io sedemmo sul marciapiede. Lui non sembrava troppo preoccupato per la ferita, disse che ne aveva passate di peggio, ma sul suo viso notavo un’espressione sofferente.
Strinsi le braccia attorno al corpo e serrai i denti perché non battessero. Esteriormente avevo assunto un atteggiamento freddo e controllato, come Ranger, ma dentro di me tremavo così forte che sentivo il cuore contrarsi nel petto.
Arrivò prima la polizia, poi l’ambulanza e infine Al. Rilasciammo le dichiarazioni preliminari, poi Ranger fu trasportato all’ospedale e io seguii l’auto della polizia alla centrale.
Erano quasi le cinque quando raggiunsi l’ufficio di Vinnie. Pregai Connie di staccare due assegni separati: cinquanta dollari per me, il resto a Ranger. Non avrei preso neppure un soldo, ma avevo bisogno di controllare le mie telefonate e con quel denaro avrei potuto comperare una segreteria telefonica.
Non vedevo l’ora di tornare a casa, fare una doccia, indossare abiti puliti e asciutti e consumare un pasto decente. Sapevo che una volta rientrata non avrei avuto voglia di uscire di nuovo, perciò mi diressi verso il negozio di Kuntz prima di tornare nel mio appartamento.
Bernie stava applicando le etichette con il prezzo su una scatola di sveglie. Alzò la testa quando entrai nel negozio.
«Mi occorre una segreteria telefonica», spiegai. «Qualcosa che costi meno di cinquanta dollari.»
Ormai la mia camicia e i jeans erano relativamente asciutti, ma le scarpe facevano acqua a ogni passo. Se stavo in piedi, subito si formavano minuscole pozzanghere attorno a me.
Bernie finse educatamente di non notarlo. Assunse l’atteggiamento del perfetto venditore e mi mostrò due modelli di segreteria telefonica del costo richiesto. Gli chiesi quale mi raccomandava e seguii il suo consiglio.
«Master Card?» volle sapere lui.
«Ho appena incassato un assegno di cinquanta dollari da Vinnie. Posso girartelo?»
«Certamente», acconsentì Bernie. «Va benissimo.»
Dal punto in cui mi trovavo, potevo guardar fuori dalla vetrina nell’interno del Sal’s Meat Market , sull’altro lato della strada. Non c’era molto da vedere: una vetrina con il nome scritto in lettere nero e oro e l’unica porta a vetri dove spiccava il cartello APERTO fissato con una piccola ventosa. Conclusi che Bernie doveva trascorrere ore intere a osservare intontito la porta del negozio di Sal.
«Hai detto che Ziggy Kulesza faceva la spesa da Sal?»
«Sicuro. Là si può comperare di tutto.»
«Già, l’ho sentito dire. Secondo te che cosa comperava, Ziggy?»
«Difficile dirlo, ma non l’ho mai visto uscire con un pacco di braciole di maiale.»
Cercai di proteggere la segreteria telefonica infilandola sotto la camicia e tornai di corsa alla Cherokee. Diedi un’ultima occhiata perplessa al negozio di Sal e partii.
Il traffico era tanto rallentato dalla pioggia che in breve fui ipnotizzata dal movimento del tergicristallo e dai fanalini rossi delle auto che mi precedevano. Come se guidassi con il pilota automatico. Riesaminai la giornata, preoccupata per Ranger. Un conto è vedere alla televisione qualcuno che si becca un colpo di pistola, ma dal vero è tutta un’altra cosa. Ranger ripeteva che non si trattava di una ferita grave, ma a me sembrava abbastanza seria. Possedevo una pistola ed ero decisa a imparare a usarla, però avevo perso parte dell’entusiasmo iniziale. Non mi andava di imbottire di piombo un essere umano.
Svoltai nel parcheggio e trovai un posto vicino all’edificio. Inserii l’antifurto, mi trascinai fuori dall’auto e salii le scale. Lasciai le scarpe in anticamera e deposi la borsa e la segreteria telefonica sul banco in cucina. Aprii una lattina di birra e chiamai l’ospedale per avere notizie di Ranger. Mi dissero che era stato medicato e dimesso. Questa era una buona notizia.
Mi rimpinzai di cracker e burro di arachidi, innaffiandoli con un’altra birra, e finalmente mi trascinai in camera. Mi tolsi gli abiti umidi, temendo di vedermi addosso la muffa; ma non scoprii nulla di strano, fortunatamente. Indossai una camicia da notte corta come una maglietta, un paio di mutandine pulite e mi infilai sotto le lenzuola.
Mi svegliai con il cuore che martellava, senza che riuscissi a capire perché. Quando la mente si snebbiò, mi resi conto che squillava il telefono. Annaspai verso l’apparecchio e stupidamente guardai l’orologio sul comodino. Le due. Doveva esser morto qualcuno, pensai. Nonna Mazur o zia Sophie. O forse mio padre aveva avuto una colica renale.
Risposi trattenendo il fiato e aspettandomi il peggio. «Pronto.»
Silenzio all’altro capo. Sentivo respirare affannosamente, rumori di lotta e poi qualcuno gridò. Una voce di donna a distanza. «No!» supplicava, «Oh, Dio, no!» Un urlo terribile lacerò l’aria, scostai la cornetta dall’orecchio e cominciai a sudare freddo quando compresi ciò che avevo udito. Sbattei giù il ricevitore e accesi la lampada sul comodino.
Scesi dal letto con le gambe tremanti e andai in cucina. Allacciai la segreteria telefonica e la programmai perché rispondesse dopo un solo squillo. La registrazione invitava a lasciare un messaggio. Evitai di dare il mio nome. Andai in bagno a lavarmi i denti e tornai a letto.
Suonò il telefono, sentii scattare la segreteria. Mi misi seduta ad ascoltare. All’altro capo del filo una voce per metà cantilenava, per metà sussurrava. «Stephanie… Stephanie…»
Portai la mano alla bocca, un gesto istintivo per soffocare un grido. Il suono mi morì in gola lasciando il posto a un singhiozzo smorzato.
«Non dovevi riappendere, sgualdrina», disse lui. «Ti sei persa la parte migliore. Devi sapere che cosa sa fare il campione, così aspetterai con ansia il tuo turno.»
Corsi in cucina, ma prima che disattivassi la segreteria telefonica, la donna fu in linea. Sembrava giovane. Le sue parole si sentivano appena, nella voce affioravano le lacrime e il tremito. «È sta… stato bello…» disse con voce spezzata. «Oh Dio, aiutatemi, sono ferita… È orribile…»
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