Janet Evanovich - Bastardo numero uno

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A corto di soldi, Stephanie Plum rimedia un lavoro, nella società di assicurazioni del cugino, come “cacciatrice di teste”, con il compito di consegnare alla polizia tutti gli arrestati rilasciati su cauzione che non si sono presentati in tribunale per il processo. Il suo primo caso è però quello di un agente di polizia ingiustamente accusato di omicidio, un ex compagno di liceo di Stephanie, al cui Anche pubblicato come “Tutto per denaro”.

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«Mi cercavi?» chiese lui.

«Potresti arrenderti», replicai. «Io non mi arrendo.»

Lui serrò le labbra. «Ragioniamo. Supponiamo che mi sdrai sul selciato e che tu m’investa con la mia macchina, passandomi sopra tre o quattro volte… proprio come ai vecchi tempi. Ti piacerebbe? Prendi il denaro anche se mi consegni morto?»

«Non c’è bisogno di arrabbiarsi. Io ho un incarico da svolgere. Niente di personale.»

«Niente di personale? Hai disturbato mia madre, mi hai rubato la macchina e adesso vai in giro a dire che ti ho messa incinta. A mio avviso, mettere una donna incinta è un affare molto personale. Gesù, non basta che sia accusato di omicidio? Chi sei, la bounty killer venuta dall’inferno?»

«Sei troppo nervoso.»

«Peggio, sono rassegnato. Tutti hanno una croce da portare… tu sei la mia. Mi arrendo. Prenditi pure l’auto, non m’importa più. Ti chiedo solo di non graffiare le portiere e di cambiare l’olio quando si accende la luce rossa.» Morelli guardò all’interno della Cherokee. «Non usi il telefono, vero?»

«No, naturalmente.»

«Le telefonate costano.»

«Non preoccuparti.»

«Merda», borbottò lui. «La mia vita è una merda.»

«Probabilmente è solo una fase transitoria.»

La sua espressione si addolcì. «Mi piace come sei vestita.» Infilò un dito nell’ampia scollatura della mia casacca e sbirciò nel reggiseno. «Molto sexy.»

Un’ondata di calore mi invase lo stomaco. Mi dissi che era collera, ma sospettai che si trattasse di paura di perdere il controllo. Gli scostai la mano. «Non fare il cafone.»

«Beh, ti ho messa incinta, no? Un gesto d’intimità non dovrebbe offenderti.» Morelli si fece più vicino. «E mi piace anche il tuo rossetto. Rosso ciliegia. Che tentazione.»

Abbassò la testa e mi baciò.

Capisco che avrei dovuto dargli una ginocchiata all’inguine, ma fu un bacio delizioso. Joe Morelli sapeva ancora baciare. Un bacio lento e tenero all’inizio, poi sempre più profondo e sensuale. Lui si tirò indietro e sorrise e io compresi di essere stata fregata.

«Preso!» disse lui.

Morelli mi girò attorno e levò le chiavi dell’accensione. «Non voglio che tu mi segua.»

«È il mio ultimo pensiero.»

«Sicuro. A ogni modo farò di tutto per rallentare i tuoi movimenti.»

Si avviò verso il cassonetto del Manni’s Deli e vi gettò le chiavi. «Buona caccia», augurò dirigendosi verso il furgone. «Pulisciti i piedi prima di salire sulla mia auto.»

«Aspetta un minuto», gridai. «Devo farti qualche domanda sull’omicidio. Voglio sapere di Carmen Sanchez. E se è vero che c’è un contratto su di te.»

Lui si issò nella cabina del furgone e uscì dal parcheggio.

Il cassonetto era di dimensioni industriali: un metro e cinquanta per un metro e ottanta; largo un metro e mezzo. Mi alzai sulle punte dei piedi e guardai oltre il bordo. Era pieno per un quarto e puzzava terribilmente. Le chiavi non si vedevano.

Una donnicciola sarebbe scoppiata in lacrime. Una donna più intelligente si sarebbe procurata un altro mazzo di chiavi. Trascinai una cassa di legno di fianco al bidone e mi issai sopra per guardare meglio. Gran parte dei rifiuti era contenuta in sacchetti di plastica, alcuni dei quali si erano squarciati quando erano stati gettati nel cassonetto spargendo avanzi di cibo, rimasugli di insalata di patate, fondi di caffè, grasso di carne alla griglia, porcherie non meglio identificate, piedi di lattuga ridotti a brodo primordiale.

Mi vennero in mente gli animali spiaccicati sull’asfalto. Cenere alla cenere, maionese… ai suoi vari ingredienti. Che si tratti di gatti o di insalata di cavoli, la decomposizione non ha nulla di attraente.

Passai in rassegna tutte le persone che conoscevo, ma non trovai nessuno tanto scemo da calarsi nel cassonetto per me. Okay, decisi, adesso o mai più. Scavalcai con una gamba il bordo del bidone e rimasi così per un momento, cercando di raccogliere tutto il mio coraggio. Poi mi abbassai lentamente, le labbra serrate in una smorfia. Se avessi fiutato la presenza di un topo, sarei schizzata fuori.

I barattoli sotto ai miei piedi galleggiavano su una poltiglia molle e maleodorante. Mi accorsi di scivolare, mi appoggiai perciò con una mano al bordo del cassonetto sbattendo il gomito contro la parete. Imprecai e trattenni le lacrime.

Trovai una borsa di plastica per il pane relativamente pulita e la usai come un guanto per frugare nel sudiciume. Mi muovevo con cautela per paura di finire a faccia in giù sui carciofi e sulle cervella di vitello in salsa verde. La quantità di cibo gettato era impressionante, tutto quello spreco mi rivoltava lo stomaco, come l’odore di marcio che impregnava l’aria, mi pungeva le narici e mi si attaccava al palato.

Dopo un momento che mi parve un’eternità, trovai le chiavi affondate in una poltiglia giallo scuro. Non vedevo pannolini in giro, perciò mi augurai che la fanghiglia fosse senape. Ficcai la mano in quello schifo coprendomi la bocca.

Trattenni il respiro, gettai le chiavi oltre il bordo del cassonetto e non persi tempo a seguirle. Ripulii le chiavi alla meglio con il sacchetto del pane. La roba gialla venne via, rendendo le chiavi abbastanza pulite per una guida d’emergenza. Mi levai le scarpe e con due dita mi sfilai i calzini. Esaminai il resto del mio abbigliamento. A parte qualche macchia di salsa sul davanti della casacca, sembrava pulito.

Vicino al cassonetto c’era un mucchio di giornali da riciclare: coprii il sedile di guida con le pagine sportive, giusto nel caso non mi fossi accorta di qualche porcheria rimastami attaccata al posteriore. Ricoprii con il resto del giornale il pavimento dalla parte del passeggero e vi posai con cautela le scarpe e i calzini.

Gettai un’occhiata alle altre pagine del giornale e lessi un titolo. CONCITTADINO UCCISO A COLPI D’ARMA DA FUOCO SPARATI DA UN VEICOLO IN CORSA. Sotto il titolo, una foto di John Kuzack. Lo avevo visto mercoledì, ora era venerdì. Il giornale era vecchio di un giorno. Lessi il trafiletto trattenendo il respiro. Kuzack era stato abbattuto nella tarda notte di mercoledì davanti al palazzo dove abitava. Il cronista proseguiva ricordando che il morto era stato un eroe del Vietnam, dove si era guadagnato una medaglia al valore, e che era un personaggio caratteristico e benvoluto in tutto il quartiere. Al momento, la polizia non aveva formulato alcuna ipotesi né individuato il movente.

Mi appoggiai alla Cherokee cercando di capacitarmi della morte di John Kuzack. Era così imponente e pieno di vita quando gli avevo parlato. E ora era morto. Prima Edleman, investito da un’auto pirata, e adesso Kuzack. Delle tre persone che avevano visto e ricordavano il testimone scomparso, due erano morte. Pensai alla signora Santiago, ai suoi bambini e rabbrividii.

Piegai accuratamente il giornale e lo infilai nello scomparto della carta stradale. Appena tornata a casa avrei chiamato Gazarra per avere rassicurazioni sull’incolumità della signora Santiago.

Non mi pareva più di puzzare, ma per precauzione guidai con i finestrini abbassati.

Parcheggiai vicino alla lavanderia ed entrai scalza a recuperare i miei panni. Nello stanzone c’era solo una persona, una donna anziana seduta al tavolo in fondo.

«Cielo!» esclamò stralunata. «Cos’è quest’odore?»

Mi sentii arrossire. «Dev’essere fuori», spiegai. «Probabilmente è entrato quando ho aperto là porta.»

«Spaventoso!»

Annusai, ma non sentivo niente. Mi si era chiuso il naso per una forma di autodifesa. Sbirciai la mia casacca. «Le sembra che la mia maglia abbia un odore di salsa?»

Lei si teneva una federa premuta sulla faccia. «Mi viene da vomitare.»

Ammucchiai la mia biancheria nel cesto e uscii. A metà strada da casa mi fermai a un semaforo e mi accorsi che mi lacrimavano gli occhi. Brutto segno, pensai. Per fortuna nessuno era in vista quando svoltai nel parcheggio ed entrai nel palazzo. L’atrio e l’ascensore erano deserti. Fino a quel momento tutto bene. Le porte dell’ascensore si aprirono al secondo piano, e anche lì non incontrai nessuno. Tirai un sospiro di sollievo, trascinai il cesto del bucato fino alla porta, entrai in casa, mi tolsi i vestiti e li cacciai in un sacco di plastica per i rifiuti.

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