Sotto la doccia, mi insaponai e mi strofinai energicamente tre volte. Indossai abiti puliti e andai dal signor Wolesky, che abitava di fronte, per fare una verifica.
Lui aprì la porta e subito si tappò il naso. «Uh!» ansimò. «Che cos’è questo odore?»
«Me lo stavo giusto chiedendo», risposi. «Pare che venga dal corridoio.»
«Una puzza insopportabile.»
«Già», convenni con un sospiro. «È stata anche la mia prima impressione.»
Rientrai nel mio appartamento. Dovevo rilavare ogni cosa ed ero rimasta senza spiccioli. Avrei dovuto fare il bucato in casa. Guardai l’orologio: erano quasi le sei. Avrei chiamato mia madre con il telefono sulla macchina per avvertirla che sarei andata da lei a cena.
Parcheggiai davanti alla casa e mia madre apparve come per magia, probabilmente guidata da un misterioso istinto materno che le suggeriva sempre il momento in cui la figlia toccava il marciapiede.
«Un’auto nuova!» esclamò. «Che bella. Dove l’hai presa?»
Avevo il cesto dei panni sotto un braccio e il sacco per i rifiuti sotto l’altro. «Me la sono fatta prestare da un amico.»
«Chi è questo amico?»
«Non lo conosci. È uno con cui sono andata a scuola.»
«Be’ sei fortunata ad avere simili amici. Dovresti portargli qualcosa, una torta per esempio.»
Le passai davanti e mi diressi verso la scala della cantina. «Ho portato i miei panni da lavare. Non ti dispiace, vero?»
«Certo che non mi dispiace. Cos’è questo odore? Sei tu? Puzzi come un bidone per le immondizie.»
«Mi sono cadute le chiavi in un cassonetto dei rifiuti e ho dovuto calarmici dentro per riprenderle.»
«Non capisco proprio come mai certe cose succedano solo a te. Agli altri non capita mai. Chi farebbe cadere le chiavi in un cassonetto? Nessuno. Solo tu.»
Nonna Mazur uscì dalla cucina. «C’è odore di vomito.»
«È Stephanie», spiegò mia madre. «È entrata in un cassonetto.»
«Che cosa ci faceva in un cassonetto? Cercava dei cadaveri? Ho visto un film alla televisione, dove dei delinquenti spappolavano il cervello a un tale prima di gettarlo in un bidone, in pasto ai topi.»
«Cercava le chiavi», spiegò mia madre. «È stato un incidente.»
«Peccato», commentò nonna Mazur. «Mi aspettavo di meglio da lei.»
Dopo aver cenato, chiamai Eddie Gazarra, misi in lavatrice il secondo carico e lavai con una canna le scarpe e le chiavi. Spruzzai del Lysol all’interno della Cherokee e abbassai completamente i finestrini. L’allarme non scattava con i finestrini aperti, ma non pensavo di correre il rischio che il padrone venisse a reclamare l’auto davanti alla casa dei miei genitori. Dopo la doccia indossai abiti puliti, freschi di bucato e asciutti.
Ero spaventata per la morte di John Kuzack e non mi andava di rientrare a casa con il buio, perciò mi congedai presto. Avevo appena chiuso la porta, quando suonò il telefono. Dall’altro capo risuonò una voce soffocata, tanto che dovetti tendere l’orecchio, guardando di sbieco il ricevitore, come se questo potesse aiutarmi a sentir meglio.
La paura è un’emozione illogica. Nessuno può fare del male al telefono, ma mi ritrassi lo stesso quando capii che era Ramirez.
Riappesi subito e quando il telefono squillò di nuovo staccai la spina dal muro. Avevo bisogno di una segreteria telefonica, ma non potevo permettermela se non avessi eseguito un arresto. L’indomani, per prima cosa, sarei andata a cercare Lonnie Dodd.
Mi svegliai al tamburellare della pioggia sulla scala antincendio. Proprio quello che ci voleva per complicarmi ancor di più la vita. Scesi dal letto e scostai le tende, per niente contenta alla prospettiva di una giornata in ammollo. Il parcheggio era lucido, rifletteva una luce che proveniva da fonti misteriose. Il resto del mondo appariva grigio, la coltre di nubi sembrava non terminare, gli edifici apparivano privi di colore per la pioggia.
Feci la doccia, indossai jeans e maglietta, lasciando asciugare i capelli all’aria. Tanto mi sarei inzuppata appena messo piede fuori dal palazzo. Feci colazione, mi lavai i denti, mi applicai uno strato di ombretto turchese tanto per avere un che di allegro. Calzai le scarpe del cassonetto in onore della pioggia. Le guardai e annusai. Forse puzzavano un po’ di prosciutto cotto, ma tutto considerato non era tanto male.
Feci l’inventario del contenuto del borsone, per essere certa di avere tutto l’occorrente: manette, manganello, torcia, pistola, munizioni di scorta; anche se avevo già scordato come si caricava una pistola, avrei potuto comunque servirmene come oggetto contundente da tirare in testa a qualche delinquente in fuga. Misi nella borsa la scheda di Dodd oltre a un ombrello pieghevole e a un pacchetto di cracker per uno spuntino estemporaneo. Presi il giaccone di gore-tex rosso e nero che avevo comperato quando appartenevo alla classe privilegiata dei lavoratori e mi diressi verso il parcheggio.
Era il giorno adatto per rimanersene a casa, sotto le coperte a leggere i fumetti e a sgranocchiare dolci. Non era certo la giornata ideale per andare a caccia di delinquenti. Sfortunatamente ero a corto di soldi e non potevo permettermi di fare troppo la schizzinosa.
Dall’elenco, l’indirizzo di Lonnie Dodd risultava 2115 Barnes. Controllai la carta stradale per potermi orientare. Hamilton Township era circa tre volte Trenton, a forma di cuneo. Barnes era situata a ridosso della ferrovia Conrail, appena a nord di Yardville, sul tratto inferiore della contea.
Imboccai la Chambers e svoltai in Apollo Street. Barnes era poco lontano. Il cielo si era leggermente rischiarato ed era possibile leggere i numeri delle case. Più mi avvicinavo al 2115 e più mi sentivo depressa. Il valore delle proprietà calava a ritmo impressionante. Quello che era sorto come un quartiere rispettabile con tanti bungalow monofamiliari si era degradato fino a ospitare gente a basso reddito o addirittura senza alcun reddito.
Il numero 2115 si trovava in fondo alla via. L’erba era cresciuta assai alta sul prato, una bicicletta arrugginita e una lavatrice con il coperchio piegato ornavano lo spiazzo davanti alla costruzione. La casa stessa pareva un ammasso di cenere poggiato su un basamento. Più che di una casa, aveva l’aspetto di un fabbricato destinato all’allevamento di polli o di maiali. Alla finestra sul davanti era attaccato un lenzuolo, apparentemente senza scopo. Probabilmente per permettere agli abitanti di godersi la loro privacy mentre si fracassavano in testa lattine di birra o meditavano altre piacevolezze del genere.
Mi dissi che doveva essere ora o mai più. La pioggia batteva sul tetto dell’auto e inondava il parabrezza. Per farmi coraggio mi ripassai il rossetto sulle labbra. Ma non era sufficiente, così mi rifeci completamente il trucco. Mi guardai nello specchietto: Wonder Woman sarebbe schiattata dall’invidia. Esaminai la foto di Dodd un’ultima volta. Non volevo affrontare l’uomo sbagliato. Misi le chiavi nella borsa, alzai il cappuccio del giaccone e scesi dall’auto. Bussai alla porta, sperando che nessuno fosse in casa. La pioggia, il quartiere e quella piccola casa sinistra mi davano i brividi. Se al secondo tentativo non apre nessuno, pensai, vuol dire che è destino. Perciò me ne vado.
Nessuno rispose quando bussai la seconda volta, ma avevo sentito scorrere l’acqua del water e sapevo che in casa c’era qualcuno. Maledizione. Presi a tempestare la porta di pugni. «Aprite», gridai. «Devo consegnare la pizza.»
Un individuo dall’aspetto macilento, i capelli neri lunghi fino alle spalle aprì. Era più alto di me, non aveva le scarpe né la camicia, indossava un paio di jeans logori e sporchi, con la lampo tirata su a metà. Alle sue spalle riuscivo a vedere il soggiorno cosparso di rifiuti. Sentivo odore di gatto.
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