«Hai lasciato aperta la finestra della tua camera.»
«La zanzariera era chiusa.»
«Le zanzariere non contano.»
«Se me l’hai rovinata, me la paghi. E la tenda della doccia? Le tende non crescono sugli alberi, sai.» Abbassai il volume della voce, ma il tono restava un’ottava più alto del normale. Onestamente, non avevo idea di quello che dicevo. Ero in preda al panico e alla rabbia, come mai m’era capitato prima. Ero furibonda che avesse violato la mia privacy ed ero terrorizzata perché mi aveva sorpresa nuda.
In circostanze adatte, nudo è bello…! Fare la doccia, fare l’amore, venire al mondo. Rimanermene nuda e gocciolante, in piedi davanti a Joe Morelli, che era completamente vestito, era più che un incubo.
Chiusi l’acqua e feci per afferrare un asciugamano, ma Morelli mi scostò la mano e gettò l’asciugamano sul pavimento dietro di sé.
«Dammi quell’asciugamano!» ordinai.
«No, finché non abbiamo chiarito alcune cose.»
Da ragazzo Morelli perdeva facilmente il controllo. Ora ero giunta alla conclusione che da adulto sapeva controllarsi alla perfezione. Nei suoi occhi affiorava il temperamento italiano, ma la violenza esibita era decisamente calcolata. Indossava una maglietta nera inzuppata di pioggia e un paio di jeans. Quando si girò verso il portasciugamani, vidi la pistola infilata nei jeans, all’altezza delle reni.
Non era difficile immaginare Morelli uccidere qualcuno, ma concordavo con Ranger e Eddie Gazami: il Morelli adulto non era stupido né impulsivo.
Si mise le mani sui fianchi. Aveva i capelli umidi che si arricciavano sulla fronte e sopra le orecchie. La bocca dalla piega dura non sorrideva. «Dov’è la calotta dello spinterogeno?»
Quando sono nel dubbio, passo sempre all’offensiva. «Se non esci subito dal mio bagno, mi metto a urlare.»
«Sono le due del mattino, Stephanie. I tuoi vicini dormono beati con l’apparecchio acustico sul comodino. Grida pure, nessuno ti sentirà.»
Rimasi sulle mie e lo guardai accigliata. Sempre con un’aria di sfida. Mi venisse un accidente se gli davo la soddisfazione di apparire imbarazzata e vulnerabile.
«Te lo chiedo un’altra volta», riprese lui. «Dov’è la calotta?»
«Non so di che cosa parli.»
«Ascolta, bambola. Ti metto sottosopra la casa, se necessario.»
«Non ho la calotta, non è qui. E non sono la tua bambola.»
«Perché proprio io?» si lamentò Morelli. «Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo’ 1»
Sollevai un sopracciglio con aria severa.
Morelli sospirò. «Sì, lo so.» Prese la mia borsa, la capovolse e il contenuto si sparse sul pavimento. Tirò fuori le manette dal mucchio e mosse un passo avanti. «Dammi il polso.»
«Brutto maniaco.»
«Come preferisci.» Lui fece scattare un bracciale e me lo strinse al polso destro.
Tirai indietro il braccio e scalciai verso di lui, ma era difficile muoversi nella vasca. Morelli scansò il calcio e agganciò l’altro bracciale all’asta della tenda della doccia. Guardai impietrita e incapace di credere a ciò che era successo.
Morelli indietreggiò e mi squadrò dalla testa ai piedi. «Vuoi dirmi dov’è la calotta?»
Non riuscivo a spiccicare parola. Abbassai la cresta. Avevo le guance infuocate per l’ansia e l’imbarazzo, la gola contratta.
«Magnifico», disse Morelli. «Non parlare. Puoi restare lì per sempre per quanto mi riguarda.»
Frugò nei cassetti del tavolino della toletta, svuotò il cestino della carta straccia, sollevò il coperchio del serbatoio sopra il water. Poi si precipitò fuori dal bagno senza degnarmi di uno sguardo. Lo sentii muoversi nell’appartamento mentre frugava ogni centimetro. Rumore di argenteria che sbatteva, cassetti aperti e chiusi, le ante dell’armadio che venivano spalancate. Qualche pausa sporadica seguita da un borbottìo soffocato.
Cercai di tirare l’asta con tutto il mio peso per piegarla, ma era troppo resistente.
Finalmente Morelli riapparve sulla porta del bagno.
«E adesso?» sbottai.
Lui si appoggiò allo stipite con fare indolente. «Sono tornato solo per dare un’altra occhiata.» Un sogghigno gli increspò le labbra, i suoi occhi si incollarono ai miei seni. «Freddo?»
Appena mi fossi liberata, lo avrei braccato come un segugio. Non m’importava se era innocente o colpevole. A costo di impiegare il resto della mia vita, lo avrei preso. «Va’ all’inferno.»
Il sogghigno si allargò. «Fortuna che sono un gentiluomo. Altri ne avrebbero approfittato in una situazione del genere.»
«Non mi dire.»
Lui si staccò dallo stipite. «È stato un piacere.»
«Aspetta un minuto. Non puoi andartene.»
«Credo proprio di sì.»
«E io? Non mi togli le manette?»
Morelli rifletté un momento. Andò in cucina e tornò con il telefono portatile. «Quando me ne vado, chiudo la porta a chiave; perciò assicurati che chiunque venga a liberarti abbia la chiave.»
«Nessuno ha la chiave di casa mia!»
«Sono sicuro che inventerai qualcosa», tagliò corto Morelli. «Chiama la polizia, i pompieri. Chiama i fottuti marine!»
«Sono nuda!»
Lui sorrise, mi strizzò l’occhio e se ne andò.
Sentii chiudersi la porta d’ingresso, poi la serratura che scattava, ma provai ugualmente a chiamare quel bastardo. Aspettai qualche secondo trattenendo il respiro, le orecchie tese nel silenzio. Joe Morelli se n’era andato. Strinsi le dita sul telefono. Speriamo che la compagnia dei telefoni abbia mantenuto la promessa di riallacciare l’apparecchio. Mi spostai sul bordo della vasca per sollevarmi al livello della mano ammanettata. Estrassi tutta l’antenna, premetti il tasto del telefono e l’avvicinai all’orecchio. Mi sentii così sollevata che per poco non scoppiai in lacrime.
Ora avevo un altro problema. Chi chiamare? La polizia e i pompieri erano fuori discussione. Si sarebbero precipitati nel mio parcheggio a sirene spiegate e con i lampeggianti accesi, e nel momento in cui avessero raggiunto la mia porta, quaranta anziani cittadini in pigiama avrebbero affollato il corridoio chiedendo a gran voce che cosa fosse tutto quello strepito e aspettandosi una spiegazione. Oramai comprendevo perfettamente alcune delle peculiarità dei miei attempati coinquilini: erano dispettosi in fatto di parcheggio e provavano un’attrazione morbosa per certe situazioni incresciose. Non appena avessero avuto sentore dell’arrivo delle auto con i lampeggianti in funzione si sarebbero precipitati alle finestre, incollandovi il naso.
Da parte mia, potevo anche risparmiarmi le occhiate maliziose di quattro o cinque poliziotti mentre ero incatenata nuda all’asta della tenda della doccia.
Se avessi chiamato mia madre, avrei dovuto espatriare, perché lei non mi avrebbe mai perdonato. E poi, avrebbe mandato mio padre e lui mi avrebbe visto nuda e ammanettata. Non riuscivo a immaginare una situazione del genere.
Se avessi chiamato mia sorella, lei avrebbe interpellato mia madre.
E infine avrei preferito marcire appesa alla doccia piuttosto di chiamare il mio ex marito.
A complicare ulteriormente le cose, chiunque fosse venuto a liberarmi avrebbe dovuto arrampicarsi sulla scala antincendio o forzare la serratura della porta. Mi venne in mente solo un nome. Avrei dovuto chiamare Ranger. Tirai un profondo sospiro e composi il numero, sperando di ricordarlo esattamente.
Lui rispose al primo squillo. «Sì.»
«Ranger?»
«Chi parla?»
«Stephanie Plum. Ho un problema.»
Una breve pausa, mi pareva di vederlo mentre si metteva seduto nel letto. «Quale problema?»
Roteai gli occhi, non riuscivo a credere di essere io a fare quella telefonata. «Sono ammanettata all’asta della doccia, ho bisogno di qualcuno che mi liberi.»
Altra pausa, poi lui tolse la comunicazione.
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