Premetti il tasto sul telefono dell’auto e composi il numero di casa di Clarence Sampson. Non rispose nessuno. E non mi era stato fornito un numero del posto di lavoro. Dal rapporto della polizia risultava il suo indirizzo: 5077 Limeing Street. Non conoscevo Limeing Street, perciò consultai una cartina stradale e scoprii che Sampson abitava a due isolati da Stark Street. Avevo la foto del ricercato incollata sul cruscotto e ogni secondo la confrontavo con gli uomini che camminavano lungo la via.
Connie mi aveva suggerito di visitare i bar sul tratto inferiore di Stark Street. Proprio la mia aspirazione, passare un’oretta al Rainbow Room all’angolo tra la Limeing e la Stark. Avrei preferito che mi tagliassero i pollici con un coltello smussato. Conclusi che era altrettanto efficace e meno pericoloso aspettare chiusa nella Cherokee e sorvegliare la strada. Se Clarence Sampson si trovava in un bar, prima o poi sarebbe uscito.
Impiegai un bel po’ a trovare uno spazio libero all’angolo tra la Limeing e la Stark. Da lì avevo una buona visuale della Stark e potevo sorvegliare fino a metà di un isolato della Limeing. Ero piuttosto appariscente nel mio tailleur, con quella grande macchina rosso fiamma, ma lo sarei stata altrettanto se fossi entrata nel Rainbow Room. Alzai i finestrini e mi allungai sul sedile, cercando di mettermi comoda.
Un ragazzino con una massa di capelli e una catena d’oro del valore di settecento dollari al collo, guardò dentro l’auto mentre due compagni si piazzavano poco lontano. «Ehi, bambola», sghignazzò il ragazzino. «Che ci fai qui?»
«Aspetto qualcuno», risposi.
«Ah, sì? Una bella bambola come te non dovrebbe aspettare nessuno.»
Uno dei suoi amici si fece avanti. Cominciò a emettere dei sospiri e a mostrarmi la lingua. Quando si accorse che lo guardavo, cominciò a leccare il finestrino.
Frugai nella borsa, trovai la pistola e la bomboletta. Posai il tutto sul cruscotto. Qualche passante si fermava a guardare di tanto in tanto, ma nessuno si attardò più di tanto.
Alle cinque mi sentivo nervosa e avevo la gonna completamente spiegazzata. Cercavo Clarence Sampson, ma pensavo a Joe Morelli. Lui era da qualche parte, lì vicino. Me lo suggeriva la morsa allo stomaco. Mi sembrava che una leggera scarica elettrica mi attraversasse la spina dorsale. Immaginavo la scena dell’arresto. Lui non se lo aspettava, io gli piombavo alle spalle e lo neutralizzavo con lo spray. Se la sorpresa non fosse stata possibile, avrei dovuto distrarlo facendolo parlare e aspettare il momento giusto per scaricargli addosso la bomboletta. Una volta caduto al suolo paralizzato, l’avrei ammanettato. Dopo di che, tutto sarebbe diventato più facile.
Alle sei avevo eseguito mentalmente l’arresto quarantadue volte ed ero agitata. Alle sei e mezzo avevo il morale sotto i tacchi e mi si era addormentata la guancia sinistra. Mi stirai meglio che potei. Cominciai a contare le auto in transito, recitai le parole dell’inno nazionale e lessi lentamente gli ingredienti sul pacchetto di gomma da masticare che trovai nella borsa. Alle sette chiesi l’ora al servizio telefonico per assicurarmi che l’orologio di Morelli funzionasse.
Stavo recriminando sul fatto di avere il sesso e il colore sbagliati per operare con efficacia nei quartieri di Trenton, quando un uomo che corrispondeva alla descrizione di Sampson uscì incespicando dal Rainbow Room. Guardai la foto sul cruscotto, tornai a fissare l’uomo, e di nuovo la foto. Ero sicura al novanta per cento che fosse Sampson. Flaccido e corpulento, testa piccola, sguardo torvo, capelli e barba scuri, bianco caucasico. Somigliava a Bruto. Doveva essere Sampson. Ragioniamo: quanti bianchi grassi e barbuti vivevano nel quartiere?
Rimisi la pistola e la bomboletta nella borsa, mi allontanai dal marciapiede e percorsi due isolati per poter svoltare in direzione di Limeing e piazzarmi fra Sampson e la sua casa. Parcheggiai in doppia fila e scesi dall’auto. Un gruppo di ragazzi chiacchierava all’angolo, due bambine sedevano con le loro Barbie in grembo sugli scalini di un ingresso. Dall’altra parte della via, sul marciapiede, un divano sgangherato senza cuscini: la versione di Limeing Street di un dondolo da giardino. Due vecchi sedevano sul divano fissando muti il vuoto, le facce rugose immobili.
Sampson barcollava lentamente, chiaro che era «cotto». Il suo sorriso era contagioso. Gli sorrisi di rimando. «Clarence Sampson?»
«Sono io», rispose.
Voce impastata, cattivo odore, come quello dei vestiti dimenticati per settimane nel cesto della biancheria.
Gli tesi la mano. «Sono Stephanie Plum, rappresento la sua compagnia di garanzia. Lei non si è presentato in tribunale e vorremmo che si rimettesse in regola per una nuova udienza.»
Un’espressione confusa gli increspò la fronte, l’uomo assorbì l’informazione e tornò a sorridere.
«Suppongo di essermene scordato.»
Sampson non era certo il tipo che definiremmo dalla personalità ben definita. Non sarebbe mai morto per un attacco cardiaco causato dallo stress, più facile che morisse per apatia.
Continuai a sorridere. «Okay. Capita spesso. Ho qui la macchina…» Indicai la Cherokee. «Se non le dispiace, l’accompagnerò alla stazione di polizia. Così sbrighiamo le formalità necessarie.»
Lui guardò in direzione della sua casa. «Non so…»
Lo presi a braccetto puntandogli un gomito nel fianco, affabile come un vecchio mandriano che guida verso il branco un vitello smarrito. Su bello. «Non ci vorrà molto.» Tre settimane, forse.
Sprizzavo amabilità e fascino da tutti i pori e intanto premevo con i seni sul suo braccio carnoso come ulteriore incentivo. Lo feci girare attorno alla macchina e aprii lo sportello del passeggero. «Le sono veramente grata», dissi.
Alla portiera Sampson s’impuntò: «Tutto quello che devo fare è fissare una nuova data per l’udienza, giusto?»
«Giusto.» E poi restare in una cella finché l’udienza non sarà fissata sul calendario. Non provavo simpatia per lui. Avrebbe potuto ammazzare qualcuno, guidando in stato di ebbrezza.
Lo convinsi a salire e agganciai la cintura. Girai attorno alla Cherokee, salii a mia volta e accesi il motore, con il timore che una lampadina si accendesse nel minuscolo cervello di Sampson e capisse che ero un’agente. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe successo quando fossimo arrivati alla stazione di polizia. Un passo alla volta, mi dissi. Se diventava violento, lo avrei neutralizzato con la bomboletta. Forse.
I miei timori erano prematuri. Non avevo percorso pochi metri, che Sampson mi guardò con occhi annebbiati e si addormentò rannicchiato contro la portiera come un gigantesco lumacone. Innalzai una rapida preghiera perché non si pisciasse addosso, non vomitasse o avesse qualche altra reazione tipica degli ubriachi.
Dopo parecchi isolati mi fermai a un semaforo e gli diedi un’occhiata. Dormiva. Finora tutto bene.
Un furgone Econoline di un azzurro sbiadito attirò la mia attenzione sull’altro lato dell’incrocio. Tre antenne. Un robusto equipaggiamento per un vecchio furgone sgangherato. Guardai il conducente con gli occhi socchiusi, un’ombra dietro il vetro sfumato, e una strana sensazione mi prese alla nuca. Scattò il semaforo. Le auto attraversarono l’incrocio. Il furgone mi passò vicino. Rimasi atterrita alla vista di Joe Morelli al volante, che mi guardava attonito.
Il mio primo impulso fu quello di rimpicciolire fino a diventare invisibile. In teoria avrei dovuto essere contenta di aver stabilito un contatto, ma in realtà in quel momento ero terribilmente confusa. Ero davvero brava a fantasticare l’arresto di Morelli, ma nel momento in cui mi si presentava la possibilità, la mia sicurezza si era già dissolta. Dietro di me stridettero dei freni e nello specchietto retrovisore vidi il furgone salire sul marciapiede per compiere un’inversione a U.
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