Cercai di figurarmi il momento in cui la Cherokee non sarebbe partita, Morelli chino sotto il cofano alzato; allora lo avrei attaccato con la bomboletta. Mi affrettai verso l’edificio e mi nascosi dietro le azalee.
Sedetti sul terreno sopra un giornale per non sciupare la gonna. Avrei voluto cambiarmi d’abito, ma temevo di perdere Morelli, se fossi salita in casa. Davanti alle azalee erano sparsi dei trucioli; il terreno su cui sedevo era di terra battuta. Magari, da bambina, l’avrei trovato un rifugio accogliente, ma non ero più una bambina e notavo delle cose a cui i bambini non fanno caso. In particolare che le azalee non erano così belle viste da dietro.
Una grossa Chrysler entrò nel parcheggio, ne scese un uomo con i capelli bianchi. Lo riconobbi, ma non sapevo il suo nome. Si avviò lentamente verso l’ingresso dello stabile. Non sembrava allarmato, non si mise a gridare: «Aiuto, c’è una pazza nascosta fra i cespugli!» perciò ebbi la conferma di essere ben nascosta. Guardai l’orologio nel buio. Le nove e quarantacinque. Stare ferma ad aspettare non era uno dei miei passatempi preferiti. Avevo fame, mi sentivo stanca e a disagio. Probabilmente c’è gente che approfitta dei momenti di attesa per raccogliere le idee, fare la lista delle faccende domestiche o per immergersi in profonde riflessioni sulla propria condizione. Per me l’attesa era connaturata alla perversione mentale. Era un buco nero. Una perdita di tempo.
Erano le undici e io stavo ancora aspettando. Mi sentivo intorpidita e dovevo andare in bagno. In qualche modo, riuscii a restare seduta per un’altra ora e mezza. Stavo riesaminando le mie possibilità e pensando a un nuovo piano, quando cominciò a piovere. Grosse e rade gocce di pioggia cadevano pigre schizzando i cespugli di azalee o andando a infrangersi sulla terra battuta dove ero seduta; un odore di muffa, che sembrava esalare da un cunicolo ricoperto di ragnatele, saliva dal terreno. Sedevo con la schiena appoggiata al muro dell’edificio, le gambe piegate contro il petto. Di tanto in tanto una piccola goccia traditrice cadeva anche su di me, ma per il resto ero all’asciutto.
Dopo qualche minuto la pioggia si intensificò, le gocce divennero più piccole e più fitte e si levò il vento. Sul piazzale iniziarono a formarsi delle pozzanghere che riflettevano sprazzi di luce; la pioggia imperlava la lucida vernice rossa della Cherokee.
Era la notte ideale per mettersi a letto con un libro ad ascoltare il tic tac delle gocce sulla finestra e sulla scala antincendio. Ed era una notte schifosa per restarsene accovacciati dietro un cespuglio di azalee. La pioggia aveva preso a turbinare con il vento inzuppandomi la camicia e incollandomi i capelli sulla faccia.
All’una, ormai ridotta in condizioni pietose, tremavo, ero inzuppata e stavo per farmi la pipì addosso. Non che la cosa avesse importanza. All’una e cinque abbandonai il piano. Anche se Morelli si fosse fatto vedere, e cominciavo a dubitarne, non pensavo di essere abbastanza in forma per riuscire a catturarlo. E non volevo assolutamente che lui mi vedesse così conciata.
Stavo per andarmene quando un’auto svoltò nel parcheggio, andò a occupare uno spazio in fondo e spense i fari. Scese un uomo che, a testa bassa, si diresse verso la Cherokee. Non era Joe. Era di nuovo Mooch. Appoggiai la fronte sulle ginocchia e chiusi gli occhi. Ero stata un’ingenua a pensare che Joe sarebbe caduto nella trappola. L’intero dipartimento di polizia gli dava la caccia. Non avrebbe mai abboccato a un trucchetto del genere. Rimasi imbronciata per pochi secondi, poi mi riscossi, giurando a me stessa di essere più furba la prossima volta. Dovevo mettermi nei panni di Morelli. Mi sarei esposta al punto di andare personalmente a riprendermi la macchina? No. Okay, stavo imparando. Regola numero uno: non sottovalutare il nemico. Regola numero due: ragionare come un delinquente.
Mooch aprì la portiera del posto di guida e si mise al volante. Il motorino d’avviamento tossicchiò, ma non si accese. Mooch aspettò qualche minuto e riprovò. Scese dall’auto, guardò sotto il cofano. Non occorreva essere un genio per capire che mancava la calotta dello spinterogeno. Mooch si rialzò, chiuse il cofano con un colpo secco, mollò un calcio a una ruota e sbottò in un’imprecazione colorita. Poi risalì sulla sua auto e uscì dal parcheggio.
Sgattaiolai fuori dall’ombra e percorsi faticosamente il tratto che mi separava dall’ingresso posteriore dell’edificio. La gonna si incollava alle gambe, l’acqua mi riempiva le scarpe. La serata era stata un fiasco, ma poteva andare peggio. Joe avrebbe potuto mandare sua madre a prendere la Cherokee.
L’androne era deserto, sembrava più buio del solito. Premetti il bottone dell’ascensore e aspettai. L’acqua mi gocciolava dalla punta del naso e dall’orlo della gonna, formando un minuscolo lago sul pavimento di mattonelle grigie. Due ascensori affiancati servivano lo stabile. Per quel che ne sapevo, finora nessuno era morto precipitando con la cabina, o era stalo lanciato nello spazio, ma esistevano ottime possibilità di restare fermi fra un piano e l’altro. Di solito usavo le scale, ma quella notte decisi di portare la mia stupidità masochista al massimo e presi l’ascensore. La cabina si fermò, le porte si aprirono ed entrai. Salii al secondo piano senza incidenti e proseguii nel corridoio. Cercai le chiavi nella borsa e stavo per entrare in casa quando mi ricordai della calotta dello spinterogeno. L’avevo lasciata dietro le azalee. Pensai di scendere a riprenderla, ma scartai subito l’idea. Per nessun motivo al mondo sarei tornata giù.
Tirai il chiavistello della porta e mi levai i vestiti sulla piccola striscia di linoleum che fungeva da anticamera. Le scarpe erano rovinate, sulla gonna erano impressi i titoli del giornale del giorno prima. Ammucchiai gli abiti inzuppati sul pavimento e andai diritta in bagno.
Regolai l’acqua, entrai nella vasca, tirai la tenda della doccia e lasciai che il getto m’inondasse. La giornata non era stata del tutto negativa, conclusi. Avevo effettuato un arresto, ora ero in regola. Per prima cosa, l’indomani, avrei incassato il denaro da Vinnie. M’insaponai, mi risciacquai e lavai i capelli. Girai il rubinetto dell’idromassaggio e rimasi in piedi a lungo lasciando che la tensione si dissolvesse. Per due volte Joe aveva usato Mooch come fattorino. Forse avrei dovuto sorvegliare Mooch. Il problema era che non potevo sorvegliare tutti nello stesso momento.
Fui distratta da una chiazza di colore sull’altro lato della tenda trasparente della doccia lucida di sapone. La chiazza si mosse e il mio cuore si fermò per un attimo. C’era qualcuno nel bagno: ero paralizzata dallo choc. Rimasi immobile come una statua, senza riuscire a connettere. Poi mi ricordai di Ramirez e mi si rivoltò lo stomaco: forse era entrato da una finestra. Dio solo sapeva di che cosa era capace Ramirez.
Avevo portato il borsone in bagno, ma era fuori portata sulla toletta.
L’intruso attraversò la stanza con due balzi e strappò dall’asta la tenda della doccia con una tale forza che gli anelli di plastica si staccarono schizzando dappertutto. Gridai, scagliai la boccetta dello shampoo e mi appiattii contro le piastrelle della parete.
Non era Ramirez, era Joe Morelli. Teneva in una mano la tendina, l’altra mano era chiusa a pugno. Sulla fronte gli si stava formando un livido nel punto in cui lo aveva colpito la bottiglietta. Era fuori di sé e dubitavo che rispettasse il gentil sesso al punto di trattenersi dal rompermi il naso. Eppure avevo una gran voglia di menare le mani. Chi si credeva di essere, quel cafone? Prima mi aveva spaventata a morte, poi mi aveva rovinato la tenda della doccia.
«Che accidenti credi di fare?» strillai. «Non hai mai sentito parlare del campanello? Come sei entrato?»
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