Emilio Salgari - La caduta di un impero

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«Ed a quelli noi opporremo i montanari di Sadhja e le Tigri di Mòmpracem che condurrà qui Sandokan. Via, cornac!…»

Non c’era bisogno di eccitare l’elefante. Il bravo pachiderma correva a gran trotto, sballottando terribilmente le persone che si trovavano radunate nella cassa. In lontananza si udivano degli spari e dei barriti. «Ci danno la caccia, è vero, cornac?» chiese Yanez. «Sì, Altezza, e coi vostri elefanti». «Si lascerà raggiungere Sahur?» «No, no: è il migliore dei vostri animali e filerà come una tromba di vento». «Fra gli uomini che montavano gli elefanti hai veduto tu i miei rajaputi?»

«No, Altezza, neppure uno. Tutte le haudah erano piene di paria e d’altri uomini che l’ex rajah deve aver arruolati sui confini del Bengala».

«Che cosa ne avrà fatto dunque dei miei uomini? Che li abbia uccisi? Da quel tiranno c’è da aspettarsi qualunque bricconata compiuta in grande, con spreco di sangue».

«Non credo che i tuoi rajaputi siano dei conigli per lasciarsi macellare senza difesa» disse Tremal-Naik. «Tu, cornac, non hai udito grida nell’accampamento?» «No, sahib».

«Allora Sindhia li avrà fatti allontanare per ora, per servirsene più tardi nel grande urto».

«E ciò m’inquieta» disse Yanez, il quale fumava rabbiosamente la sua ultima sigaretta. «Mai più mi aspettavo una simile tempesta!… C’è del tempo però, e non lascerò portarmi via la corona senza dare delle terribili battaglie. Eccoci già in vista della capitale. Come fila questo bravo Sahur!…»

Spuntava allora l’alba e sul nitido orizzonte, tinto d’un rosa tenerissimo, si profilavano le pagode della grande città. Ormai non si udivano più né barriti di elefanti né colpi di fucile.

I congiurati, persuasi ormai di non poter raggiungere il velocissimo Sahur, e non volendo troppo mostrarsi in luoghi abitati, si erano fermati per ritornare poi verso la pagoda dove si trovavano i loro compagni. La strada era buona, aperta fra grandi risaie, già piene di contadini e di contadine, e non vi erano più foreste per temere qualche nuova imboscata. Sahur, che pareva inesauribile, con un ultimo slancio raggiunse il ponte levatoio del bastione di Karia e condusse, sempre al galoppo, il maharajah ed i suoi cacciatori dinanzi alla elegante palazzina, circondata da una doppia fila di rajaputi. Vedendo quei guerrieri, Yanez ebbe un sorriso pieno d’amarezza.

«Si potrebbe crederli fedeli» disse a Tremal-Naik. «Chissà invece che cosa pensano nei loro cervelli. Conoscere questi mercenari è un po’ difficile».

Fece gettare la scala, scese portando la sua grossa carabina e le sue pistole, e seguito dal vecchio cacciatore entrò nel suo salotto, certo di trovarvi Surama.

La piccola rhani si trovava infatti là, guardata dal cacciatore di topi che si era messo nella fascia quattro pistoloni e due tarwar, e stava cullando il piccolo Soarez che aveva preso dalle braccia della nutrice.

«Ah, mio signore!…» esclamò, alzandosi impetuosamente. «Io ti piangevo già come morto».

«Perché, Surama?» chiese il portoghese, affettando la massima calma. «Non sono un uomo da farmi uccidere come un nilgò, né da farmi prendere. Sappi però che Sindhia ci ha portati via tutti i nostri elefanti ed i duecento rajaputi che ci scortavano. Quel briccone comincia a diventare estremamente pericoloso ed è giunto il momento di pensare seriamente ai casi nostri. Le ruote del nostro impero, non so per quale motivo, stridono orribilmente, e non basta più l’olio». «Tu mi spaventi, Yanez» disse Surama, affidando il bambino alla nutrice.

«Come vedi torniamo completamente sconfitti, e se non ci fosse stato il cornac di Sahur, non so quando noi avremmo potuto far ritorno. Non spaventarti: la corona è ancora ben fissata sui tuoi capelli neri, e noi siamo qui pronti a difenderla. Tremal-Naik quest’oggi partirà per le montagne e faremo calare qui i fedeli e valorosi montanari di Sadhja, poiché sui rajaputi non possiamo più contare assolutamente. Kammamuri è in viaggio per Calcutta, e fra ventiquattro ore Sandokan avrà il nostro telegramma. Fra trenta giorni noi saremo in grado di dare un colpo decisivo a Sindhia. Si tratta solo di sapere se potremo aspettare tanto gli aiuti del mio terribile fratello malese». «Ed i miei montanari?»

«Ci conto, mia cara, e sono la nostra unica speranza, pel momento. M’ingannerò, ma mi pare che questo nostro impero cominci a sgretolarsi».

«Forse esageri, Yanez» disse Tremal-Naik. «Non abbiamo che dei paria dinanzi a noi».

«No, anche dei bengalesi e poi i miei rajaputi. Oh!… Altri ci tradiranno, e fra poco. Quei guerrieri si vendono al migliore offerente, eppure io li pago a pezzi d’oro. Che Sindhia ne abbia più di me? Io non lo credo».

Prese sul tavolo una sigaretta, l’accese, poi si empì un bicchiere di birra, e guardando il cacciatore di topi che fino allora era rimasto silenzioso: «È ancora vivo il prigioniero?» «Il bramino?» «O meglio il paria».

«No, Altezza, è morto tre o quattro ore fa. Il troppo lungo digiuno l’aveva sfinito». «Che il diavolo se lo porti!… Ha chiuso per bene anche l’altro occhio?»

«Sì, Altezza; però avendo io sollevato la sua palpebra, ho veduto un lampo sinistro, pauroso, scaturire dalla nera pupilla, eppure era già morto».

«Surama, sei più tranquilla ora che quel miserabile ha mandato l’ultimo sospiro?»

«Sì, mio signore» rispose la rhani. «Prima avevo sempre come una nebbia fitta nel mio cervello, ed ora sono tornata la donna di prima».

«Che l’abbia accoppato il rajaputo? È l’unico uomo fedele» disse Yanez, guardando il baniano. «Non lo so, Altezza. Quando mi ha chiamato, il bramino era già spirato».

«Ormai non era che un ingombro» disse il portoghese. «Comincio a diventare cattivo, ma è necessario. Tutti questi tradimenti, che mi stringono fra le loro spire, senza nulla poter opporre in tempo, cominciano a farmi diventare un tiranno. E sia!… Sindhia lo era, ed ora minaccia di riconquistare tutti i suoi sudditi ai quali noi abbiamo dato le più ampie libertà. Si vede che nell’India, per governare, bisogna essere cattivi».

«Tu hai ragione, Yanez» disse Tremal-Naik. «Solo i rajah sanguinari hanno fortuna in questo disgraziato paese». «Che cosa pensi di fare, mio signore?» chiese Surama.

«E me lo domandi? Se non avessimo un figlio lascerei andare anche la corona dell’Assam che mi ha dato più noie che soddisfazioni, e andrei a riposarmi a Mòmpracem, a fianco del mio fratello bruno, il terribile Sandokan. Ma vi è il piccino, e per Giove, farò il possibile per lasciargli l’impero che io e tu, Surama, abbiamo guadagnato col nostro valore. Bel mestiere fare il maharajah!… Siamo già ridotti a mangiare delle uova sode o crude per non prenderci delle coliche terribili a base di veleno di bis cobra. Che il diavolo si porti tutti i regni del mondo, Io ne ho abbastanza».

«Mio signore», disse Surama, «vuoi che prima che scoppi la rivoluzione andiamo a Mòmpracem?»

«Io!… Io fuggire dinanzi a Sindhia!…» gridò Yanez. «Ah, no!… Quel pazzo che ha riacquistata la ragione mercé le cure prestategli a Calcutta e pagate coi denari nostri, non metterà le sue mani sulla tua corona, mia piccola rhani. Sandokan l’hanno chiamato la Tigre della Malesia; laggiù chiamavano me la Tigre bianca. Siamo nel paese delle tigri, e per Giove, come abbiamo vinto Suyodhana, spero di vincere anche Sindhia».

Vuotò il bicchiere di birra, poi scagliò il vetro contro la parete, mandandolo in dieci pezzi. «Lo spezzerò come ho fracassato questa tazza». Non era più l’uomo tranquillo.

I suoi occhi avvampavano, i suoi lineamenti già sempre energici, erano diventati feroci, la sua barba abbondantemente brizzolata, era diventata irta.

«Ah!… Vogliono la guerra!…» gridò, spezzando una seconda tazza. «L’avranno, e sarà terribile. Vieni, Surama, andiamo a riposarci. Per ora, credo, che nessun pericolo ci minacci».

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