Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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Un buffo d’aria tiepida e profumata penetrò nella stanza. Respirando quegli effluvi provenienti dai fiori di lei, sentì inebbriarsi, sentì ridestarsi più forte che mai quella passione un momento prima soffocata, si sentì suo malgrado vinto.

Le sue labbra lanciarono avidamente un bacio nell’immensità dello spazio e i suoi occhi cercarono scorgere il bel volto di Marianna semi-nascosto fra le ombre dei grandi alberi.

Il pirata l’ammirò in silenzio, fremente, anelante, trasognato. La febbre lo assaliva, si sentiva il fuoco scorrere per le vene e guizzare in tutte le parti del corpo e fiammeggiare nel cuore; gli pareva che nubi di fuoco scorressero dinanzi ai suoi occhi, in mezzo alle quali brillava la divina figura di Marianna.

Una pazza idea s’impadronì di lui. Misurò l’altezza che lo separava dal giardino, come la tigre misura lo slancio per avventarsi sulla preda, e quantunque superasse i dodici piedi, guadagnò il davanzale e saltò fra le aiuole.

– Bisogna che la veda ancora una volta, una sola – mormorò egli quasi fuori di sé. – Voglio godere ancora quella felicità che io provavo presso di lei… vederla ancora, poi me ne andrò. Fuggirò senza dirle una parola, come un ladro che ha paura di essere preso… me ne ritornerò al luogo donde sono partito, alla mia Mompracem… nella mia isola fra i miei pirati. Se rimanessi la febbre mi abbrucierebbe… non sarei più io la Tigre, non sarei più libero… Orsù, ancora una volta, poi seppellirò quel nome a me tanto caro e quei ricordi, e ritornerò Sandokan.

Il pirata, senza fare più rumore di un serpente si mise a strisciare verso lei che volgeva il capo. Si avanzava con gli occhi infuocati fissi su lei, aspirava colla voluttà di un orientale le emanazioni dei fiori che parevano l’alito di lei, si inebbriava in mezzo a quelle piante, in mezzo a quelle aiuole.

Era allora a dieci passi dalla giovanetta, nascosto dietro a un albero, quando la vide muoversi, agitarsi, alzare il volto verso il cielo, poi nascondersi il volto fra le mani.

Ella rimase per qualche tempo così, come assorta in dolorosi pensieri, poi le sue mani si portarono sulle corde della mandola, e la sua voce vibrante, dolce, carezzevole, improntata di una viva tristezza risuonò sotto le grandi volte di verzura destando gli echi delle foreste, aleggiando al disopra dei fiori che parevan piegare gli steli.

Il pirata, nell’udirla, credette essere in preda a un sogno. Tutti i suoi progetti di fuga sfumarono come per incanto, e rimase come inchiodato dietro l’albero, spiando i più lievi movimenti, porgendo attento ascolto a quella voce che scuoteva le sue fibre, che lo trasportava in un nuovo mondo.

– Resterò! – esclamò egli. – Resterò! Dovessi sacrificare il mio nome e la mia potenza!…

Poi, senza aspettar altro, delirante, si mise a fuggire attraverso i viali con passo rapido.

Giunse sotto la fenestra e con un balzo guadagnò il davanzale. Aveva paura di non sapersi più padroneggiare, aveva paura di fuggire abbandonando quei luoghi che cominciava ad amare.

Era appena entrato che lord James capitò. Era più sorridente del solito.

– Amico mio, sapete cacciare la tigre? – domandò egli al pirata.

– La tigre! – esclamò Sandokan come non comprendesse il significato di quella domanda.

– E che, non usate cacciare la tigre voi, nella Malacca?

– Sì… sì, è la mia passione – rispose il pirata.

– Benone, amico mio. Domani caccieremo la tigre!

CAPITOLO IX. La caccia alla tigre

Durante tutta la sera Sandokan non si era fatto vedere, né da lei, né dal lord, accusando di provare un po’ di sfinimento e una violenta emicrania, il che non gli avrebbe impedito alla domani di trovarsi fra i primi a cacciare la tigre. Non era che una scusa per trovarsi solo; non vi erano emicranie di sorta per lui che non le aveva mai provate, né sfinimenti; sentivasi più forte che mai. Voleva esser solo, per prepararsi per la caccia cui egli riguardava ben sotto altro scopo. Era turbato dopo gli avvenimenti della giornata, che gli avevano aperto un nuovo avvenire, che l’avevano spinto su di una nuova via, che avevano cangiato la Tigre della Malesia, forse prossima a lasciare per sempre quei mari che aveva bagnati di tanto sangue.

Aveva il fuoco nelle vene, non sapeva dominarsi più. Arrischiava l’ultima carta prima di precipitarsi perdutamente in mezzo a una nuova avventura, che per lui era la vita.

Egli girò e rigirò attorno la stanza come una belva rinchiusa nella sua gabbia, cercando allontanare quella visione che lo seguiva passo passo nell’ombra, che gli sussurrava nuove parole, che lo affascinava suo malgrado: poi si arrestò, come poche ore prima, dinanzi alla fenestra che guardava sul giardino come in preda a un sogno, e guardò senza sapere il perché al di fuori.

– Guarda – mormorò egli cercando rompere le tenebre che avvolgevano il parco. – Guarda! Qua la felicità, qua una vita nuova, qua lei e laggiù Mompracem, una vita d’avventuriere, una tempesta di ferro, del sangue, i miei uomini, il Portoghese! Quale di queste due vie? Tutto il mio sangue bolle, quando penso a quella fanciulla che non ho mai veduto nei miei sogni; il fuoco mi serpeggia nelle vene, entro le quali scorre piombo fuso! Si direbbe ch’io l’amo, che l’antepongo alla mia vita di uomo sanguinario. Il mio cuore rugge al sol pensiero che è figlia delle giacche rosse, ma sanguina al pensiero che io dovessi dimenticarla! Prima era il terror dei mari, prima non aveva mai provato emozioni, non aveva gustato che sangue e sangue… e ora, non gusto che lei, non respiro che l’alito di lei, non provo che emozioni per lei. Il mio mondo è lei!…

Il pirata aprì la fenestra, aspirò l’aria fresca della notte. La notte era magnifica, stellata, una notte tropicale; egli sentì il sangue rimescolarsi, turbinargli, il cuore fiammeggiare. Con un balzo precipitò nel giardino ancor prima che potesse rendersi conto di quella mossa.

Rimase incerto, ascoltando lo stormir delle fronde e il sibilar del sangue negli orecchi.

– Se io fuggissi? – si chiese egli. – Se io frapponessi fra me e quella visione divina la foresta, poi il mare, poi… poi dell’odio, perché ha del sangue di loro! Ritornerei libero laggiù… senza nulla rimpiangere… senza farle conoscere che io l’amo di già, ancor prima che lei abbia ad amarmi!

Sandokan fece alcuni passi come avesse preso una risoluzione movendo verso le mura del parco, poi s’arrestò come lo spavento l’avesse inchiodato al suolo. Gettò uno sguardo attorno, vide i grandi alberi che parevano messi là per spiarlo, vide quei fiori il cui profumo lo inebbriava, vide il tronco atterrato dove poco prima era seduta lei, vide su di esso la mandola poi qualche cosa di bianco. Fece un passo, due, poi dieci dirigendosi verso quel luogo col passo furtivo di un ladro.

– Era là – mormorò egli con voce commossa. – Era là, quella giovanetta affascinante, era là che cantava ed io ero laggiù a udirla, ebbro, trasognato!… Se io non la vedessi mai più?… Se io non la udissi mai più?… Se fuggissi?…

Egli girò nuovamente attorno lo sguardo e lo fermò sulla mandola, presso la quale vide un oggetto bianco. Egli si avvicinò come spintovi da una forza sopranaturale, senz’essere capace di staccare da esso gli occhi, e l’afferrò con mano convulsa.

Era un fiore, una rosa dei boschi che la giovanetta s’era dimenticata. Il pirata l’ammirò a lungo come si ammira una cosa sacra, fiutò più volte il delicato profumo che esalava, la portò alle labbra, la baciò con appassionato trasporto. Stette un minuto, due, forse tre, così col fiore attaccato alle ardenti labbra, poi lo nascose nel petto e marciò dritto alle palizzate.

– Andiamo – rantolò egli. – Tutto sarà finito.

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