Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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– Ah! Tante grazie si attribuiscono a questa povera Perla – disse la lady ridendo. – In fede mia, credo di non meritarne tante.

– E io credo che se ne attribuisca ancora poche! – esclamò il pirata con fuoco. – Non ho mai veduto nella mia patria una giovanetta che rassomigli alla Perla!

– Vi sarebbe dubbio che la Perla avesse affascinato anche la Tigre? – chiese il lord celiando.

– E perché no? – disse Sandokan vivamente. – Non ha affascinato tutti i pescatori della costa?…

– Ah! voi scherzate – disse la giovanetta facendosi di bragia.

– Ve lo dico io. Mi narrarono che persino un pirata del Borneo ne fu affascinato.

– Oh! – fe’ il lord sorpreso. – Che quei maledetti si sieno spinti fino alla mia abitazione! My-God! la sarebbe curiosa.

– No, milord. Fu la voce di lady Marianna che l’affascinò.

– Ma come?

– La udì passando col suo prahos sotto la costa. I pescatori mi assicurano che la voce della lady superava quella di una sirena.

– Burlone – disse la giovanetta.

– Non vi ho detto che pur io, che mi chiamano a Schaja la Tigre, quando vi udii parlare mi parve di non sentire più il dolore della ferita?

– Orsù, Marianna – disse il lord gaiamente. – Affascina adunque completamente questa Tigre. Se le sole parole spengono il dolore, una romanza sono sicuro che lo farà guarire.

– Sì!… Guarirò!… Guarirò!… – esclamò Sandokan.

Vi era un accento d’ingenuità, un tale accento di sicurezza in quell’esclamazione che la giovanetta ne fu colpita. Prese macchinalmente la mandola. Appena che toccò le corde Sandokan sussultò come se una pila elettrica l’avesse toccato. La giovanetta notò quel sussulto, nondimeno si mise a cantare una romanza accompagnandola delicatamente coll’istrumento.

Cantava ella in una lingua straniera che il pirata non aveva mai udito, in una lingua più dolce del suono della mandola, modulata, carezzevole che toccava il cuore.

Le onde sonore, di una infinita dolcezza, lo inebbriavano, lo affascinavano e a segno che il sanguinario avventuriero che non avea mai gustato che la musica dei cannoni, si sentì suo malgrado commosso, si sentì trasportato in un nuovo mondo.

Spiava ansiosamente le mosse di quelle labbra coralline, quasi volesse colla potenza del suo sguardo farne uscire nuove parole che trovavano un eco sconosciuto nel più profondo del suo cuore, che scuotevano le fibre d’acciaio del suo corpo e che gli giungevano agli orecchi come musica divina. Egli era là, muto, anelante, rattenendo il respiro quasi temesse turbare coll’alito quella voce melodiosa, cogli occhi fissi su colei che cantava: pareva che volesse attirare quelle parole, inebbriarsi di quei suoni, scolpirsi in mente le dolcezze di quella lingua ignota.

Quando la giovanetta finì, quando quell’impareggiabile voce, dopo di aver vibrato con novella energia morì sulle corde della mandola, egli era ancora là, colle braccia tese come attirasse l’incantatrice, collo sguardo fiammeggiante fisso in quello umido di lei, colle labbra frementi, colle orecchie tese, col cuor sospeso. Ascoltava ancora e avrebbe voluto ascoltar sempre. La voce del lord lo trasse da quell’estasi dov’era piombato.

– Ebbene, mio prode amico, come trovate la romanza di mia nepote?

– Oh! – esclamò Sandokan con slancio appassionato e quasi selvaggio. – La trovai sublime come era sublime colei che la cantava. Nel mio paese non ho mai udito una simile voce più dolce del mormorio dei ruscelli, più modulata del gorgheggio degli uccelli!…

Il lord sorrise mentre la giovanetta arrossiva guardandolo fisso.

La conversazione durò ancora qualche tempo aggirandosi ora sui pirati, ora sulla penisola malese ed ora su Labuan, poi essendosi fatto tardi, il lord si ritirò colla nepote, dopo di aver stretto la mano che il pirata francamente gli porgeva.

Il pirata rimasto solo, stette a lungo a guardare la porta per la quale erano usciti, come uomo che medita: poi si scosse bruscamente. Il suo volto poco prima pallido erasi allora coperto di un vivo rosso e gli occhi poco prima malinconici si erano dilatati enormemente.

Qualche cosa gli rumoreggiò in fondo al petto ma non uscì; le labbra che fremevano come avessero la febbre si chiusero e i denti si strinsero come volessero impedire l’uscita di una frase che pareva volesse irrompere.

Stette così un minuto, due, tre, tutto in sudore, colle mani nei capelli, ansante poi le labbra si schiusero:

– Ah! – esclamò egli con una voce che pareva quella di una belva e improntata di un vivo spavento. – L’amerei io forse?…

CAPITOLO VIII. La guarigione

Marianna dei conti Guillonk era nata sotto il bel cielo d’Italia da padre inglese e da madre napoletana. Perduti ancor fanciullina i genitori, ed erede di una cospicua sostanza, era stata raccolta da lord James suo zio, uno dei più intrepidi lupi di mare della flotta britannica, un vero marinaio d’antica schiatta, ruvido, quasi direi brutale, incapace di provare affezione per chicchessia e quindi incapace di provare affezione per l’orfana.

Questo lupo di mare, imbarazzato di trovarsi fra le braccia una nepote, e non fidandosi d’altra parte d’abbandonarla a mani straniere, per nulla disposto allora a piantar radici in terra, l’aveva per così dire rapita dalle spiaggie napoletane portandola seco sui mari. Per più di sei anni l’aveva abituata alla dura vita marinaresca, per più di sei anni l’avea menata a ramingar pel mondo da un porto all’altro, da un’isola a un’altra, da un continente a un altro, fino a che un bel dì, per un inesplicabil capriccio, si era fermato a Labuan dove aveva piantato casa.

Una volta collocata la fanciulla, datale per compagna una napoletana, l’aveva abbandonata completamente a sé stessa, affaccendandosi a cacciare da mane a sera nelle foreste dell’isola o a tentare spedizioni contro i pirati che si era giurato di sterminare.

Mai che il lupo avesse rivolto una dolce parola all’orfana, mai che avesse dimostrato per lei qualche affetto. Si contentava di non contrariare i gusti di lei, pur sempre tenendola in certo qual modo prigioniera fra quelle foreste, come fosse geloso che le fuggisse.

Marianna a tal modo era cresciuta come una specie di selvaggia fra quei boschi, segregata dal mondo civile, contraccambiando, nel fondo dell’anima, l’indifferenza del rozzo lupo di mare.

Si era rinchiusa in quel piccolo mondo cinto d’alberi e recinto di fiori che coltivava con passione, e benché avesse per lungo tempo rimpianto le pittoresche rive del Tirreno, aveva finito a poco a poco coll’abituarsi a quella vita austera, ma che non mancava di poesia, coltivandosi da sé, in una maniera tutta sua.

Amava circondarsi di fiori perché in certo qual modo le rammentavano quelli della sua patria, amava l’immensità perché sapeva trovarvi la poesia del suo paese, amava il mare perché le ricordava quello delle spiaggie napoletane, amava la musica perché le sembrava la voce dei suoi compatrioti. Era cresciuta coraggiosa ed energica quanto dolce e sensibile. Scorrazzava intrepida, quale Diana cacciatrice, le foreste, affrontando arditamente il cignale, sfidando la tigre stessa che ritiravasi dinanzi la canna dell’infallibile sua carabina, inseguendo leggera come un capriolo il babirussa. Attraversava da sola tutte le foreste, senza temere il selvaggio imboscato, pel solo scopo di spingersi fino al mare per vederlo calmo o irritato e gorgheggiare sulle sue rive al tramontar del sole, o per destare gli echi dei boschi col dolce suono della chitarra o della mandola, o per guizzare come una naiade nelle baie, per nulla impaurita della presenza dei pesci-cani.

Se era intrepida altrettanto era buona e dolce, pietosa. Si recava presso i selvaggi accampati nelle paludi per recare loro soccorsi. Aiutava gli uni e gli altri, curava i feriti o gli ammalati, in maniera che tutti quelli dei dintorni la riguardavano come un buon genio e l’ammiravano come fosse una donna soprannaturale. Tutti accorrevano da lei, dalla Perla di Labuan come la chiamavano, sicuri che non li avrebbe respinti, e sarebbe forse bastata una sua parola, un cenno, per sollevare quei bruti, e avventarli contro i suoi compatrioti. S’era in certo qual modo formato un piccolo regno, dove imperava padrona assoluta, s’era formato un piccolo mondo che lei dirigeva a capriccio.

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