Emilio Salgari - La tigre della Malesia
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Ripose quasi con dispiacere quel fiore fra le pagine, collocò il libro sullo sgabello e tornò a coricarsi dimenticando il luogo dove si trovava, la ferita, la febbre.
– Marianna! – ripeté per la terza volta e socchiuse gli occhi fantasticando su quel nome.
Si addormentò tranquillamente ad onta della febbre che lo divorava, sognando non già fiumi di sangue, fantasmi dagli occhi di fuoco, scheletri dalle ossa crocchianti e vuote occhiaie, ma foreste immense di una bellezza incomparabile, fiumi tranquilli mormoranti fra le praterie, montagne vaghe e in mezzo a tutto ciò un nome gigantesco, immane, tracciato a grandi lettere d’oro che lo abbagliavano, dapprima confuso, poi più chiaro e infine leggibile. Era ancora il nome di Marianna!
Ma il sonno e il sogno non durarono molto. La febbre si sviluppò terribilmente e pericolosamente accompagnata dal delirio. Si svegliò che il sole calava al ponente ed ebbe paura come le notti precedenti, malgrado che la situazione fosse cangiata. Egli si mise ad agitarsi urlando come un insensato.
– Via queste tenebre… via questi fantasmi che aspettano il calar del sole! Via, non vedete che mi guardano ancora, che mi abbruciano coi loro sguardi di fuoco?… Ah! ecco gli scheletri… danzate, danzate figli delle giacche rosse… ecco del sangue, dei teschi riboccanti di vino, delle membra lacerate… ovunque sangue, armi, armati, morti, moribondi!… Annegatemi tutti questi mostri dalle gole spalancate… dite loro che non ho paura… sono la Tigre, capite, la Tigre!…
Egli si arrestò non udendo più la voce di James Guillonk che cercava calmarlo, e che passava da uno stupore all’altro nell’udire questi strani discorsi. Poi ripigliò l’insensato quanto pericoloso vociare, che poteva tradirlo precipitandolo fra le braccia dei Britanni assetati del suo sangue.
– Oh! non ho paura io… tutte le giacche rosse non mi fanno tremare… sono la Tigre… la Tigre dei mari. M’hanno assassinato… ho la loro palla che mi abbrucia come fosse di fuoco… là, l’ho avuta là, a bordo di quell’odiata nave… da essi, quando faceva strage di giacche rosse!… Oh! mi vendicherò… atrocemente sì, mi vendicherò. Tutto a ferro e a fuoco!… Là, là, Mompracem, non tremare… la Tigre è là sul mare, spiando sempre. Ferro e fuoco!…
Poi la visione parve cangiare improvvisamente. Si levò a metà, cogli occhi stranamente fissi sul tavolo della stanza, e stese le mani nervosamente raggrinzate verso di esso.
– Di chi è quel nome… di chi è quel nome che risuona qua entro… nel cuore della Tigre?… che mi fa fremere? Chi giuocò là su quella scacchiera?… Vedo una mano, fina… vedo una fanciulla che mi sorride… mi tende le braccia… è bionda perché è razza delle giacche rosse! Mi sorride… il mio cuor freme… sanguina… Il suo nome, il suo nome… io lo sapeva! Ah! non mi rammento più!
Il pirata cadde spossato sul letto gettando un gemito; si agitò ancora come cercasse abbracciare qualche cosa che pareva sfuggirgli, poi cadde in un profondo torpore che somigliava al sonno.
Lord James lo contemplò colle braccia incrociate e la fronte leggermente corrugata. Aveva udito i bizzarri discorsi usciti dalle labbra del ferito, dei discorsi che potevano gettarlo su di una traccia e pensava. Come potevano mai entrarci le giacche rosse? Non poteva aver compreso il vero significato della parola, ma sospettava che ciò riguardasse quelli della sua razza. E poi, quei cadaveri, quel sangue, quel nome di Tigre che si dava, quelle stragi, e di più quella Mompracem, il fantasma di Labuan, il formidabile nido di pirati, aveva tutto ciò qualche cosa di sì strano, che preoccupava vivamente l’Inglese.
– Se fosse un pirata! – esclamò egli e si arrestò a contemplare quel fiero tipo che allora dormiva.
Uscì senza far rumore, riservandosi di chiedere una spiegazione all’indomani, dopo di averlo raccomandato a due indigeni e di avergli fatto preparare un calmante.
Quando Sandokan si svegliò era tardi. Non si rammentava quasi nulla di ciò che aveva detto durante la notte, solo degli scheletri che parevano aver danzato intorno a lui e dei fiumi di sangue.
– Bevete questa tazza – disse uno degli indigeni presentandogliela colma di vino.
Sandokan la vuotò senza dir verbo, ma provando un vero sollievo. Egli girò lo sguardo attorno come cercasse qualche cosa e lo fermò ancora sul libro del fiore leggendo il singolar nome, provando la medesima emozione del giorno precedente. Allungò la mano come per prenderlo, ma vedendo i due indigeni che lo guardavano con curiosità, si trattenne.
– Avete passato una cattiva notte – disse uno degli indigeni.
– Ah! – fe’ Sandokan alquanto contrariato di vederseli vicini.
– Avete parlato sempre, gridando come un insensato – continuò l’indigeno.
Il pirata sussultò e si fece più attento. Non si rammentava di ciò che avea detto, forse poteva essersi tradito senza saperlo. Colse l’occasione a volo.
– Voi mi dite che io ho parlato? – domandò egli colla massima calma guardando il negro.
– Sì, avete parlato di sangue, di navi, di scheletri, di giacche rosse e di mille altre stranezze.
– E di Mompracem? E di… – il nome che stava per uscirgli incautamente gli si arrestò fra le labbra.
– Sì, di Mompracem – disse ingenuamente l’indigeno. – Quel nome meravigliò il padrone.
Sandokan, malgrado fosse coraggioso si sentì invadere da un vago timore.
– Mi sono tradito! – mormorò egli gettando uno sguardo all’intorno come cercasse un’arma.
Ebbe per un istante l’idea di scagliarsi sui due indigeni e di darsi alla fuga dopo averli strozzati, ma si frenò. Poteva essersi ingannato; risolse aspettar gli eventi, deciso però a non lasciarsi prendere vivo. Avrebbe ben saputo lui prendere il largo a momento opportuno.
Egli stava per intavolar il discorso su più vasta scala, quando lord James entrò.
– Come state, giovanotto mio? – domandò egli movendo verso il letto. – I corpi d’acciaio sono sempre d’acciaio; guariscono a dispetto di tutte le ferite del mondo.
Sandokan sorrise, ma scrutando gli occhi dell’Inglese come per leggervi il pensiero che gli attraversava la mente. Intravvide una ruga più profonda del giorno innanzi sulla sua fronte, ma non si smarrì.
– Mi sento più forte che mai – rispose egli. – I miei ringraziamenti, milord, per le vostre cure.
– Non parliamone più, sarò abbastanza ricompensato nel vedervi guarito. Sapete che questa notte eravate in preda al delirio. Non vi nasconderò che dalle vostre labbra sono usciti strani discorsi.
– Ah! – esclamò Sandokan sorridendo. – Ho adunque parlato? Non mi ricordo più.
– Vi dirò poi cosa diceste. Ma una domanda prima di tutto; quantunque conosca in voi un personaggio d’alto grado, non so ancora chi siate. Vorreste dirmi qual vento vi spinse su queste coste?
– Ascoltatemi, milord – disse Sandokan. – Il mio nome forse non vi riescirà nuovo, godendo una certa fama sulle coste della Malesia e specialmente a Schaja dove mio fratello è ragià. Mi chiamo Whu-Pulau e fui mandato in questi mari da mio fratello con un prahos carico di belzoino pel sultano di Varauni. Ho avuto la sfortuna d’incontrare dei prahos pirateschi coi quali venni a combattimento. Fui vinto, il mio equipaggio scannato e io ferito potei scampare miracolosamente al loro furore.
L’Inglese stese la mano che Sandokan strinse non senza ribrezzo.
– Bene, mio degno amico, una spiegazione ora – disse il lord. – Avete parlato questa notte di Tigre, di cui vantaste le sanguinose gesta. Siete voi che portate un tal nome?
– Sì – rispose Sandokan che involontariamente trasalì. – I miei guerrieri mi diedero questo nome pel mio valore. Sono il terrore dei miei nemici e segnatamente dei pirati.
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