Emilio Salgari - La tigre della Malesia
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Perlustrò ad una ad una le fessure facendone uscire frotte di pesciolini, troppo agili per venire afferrati, mosse le alghe in mezzo alle quali si appiattavano lunghe anguille, frugò sui banchi di sabbia rimescolando ostriche piccole e granchi, e continuò ad avanzarsi coll’acqua fino alle ginocchia, avvicinandosi a un banco sabbioso di pochi piedi sott’acqua.
– L’ostrica non deve mancare là, su quel banco, che si presenta a sì buon punto – pensava egli.
E infatti il marinaio non s’ingannava. Vide una di quelle ostriche colossali chiamate di Singapura, a metà seppellita nelle sabbie, capace di nutrire per lo meno due uomini. La raggiunse tuffandosi fino alle anche, si curvò, e con uno sforzo che gli costò più di un gemito, la strappò dalle sabbie.
– Ecco ciò che io cercava; che importa ora se sono ferito quando accanto a me ho un ruscello e dei viveri? Non andrò no, a battere la porta delle giacche rosse finché le forze mi resteranno; vivrò nei boschi come una tigre, e una volta guarito saprò ben io trovare la via per ritornare a Mompracem. Del resto, i miei uomini non mi hanno dimenticato.
Raggiunse la riva affranto, dove sostò, sedendosi sulla grande ostrica, che aveva rinchiuso prudentemente i suoi bivalvi. Occorreva del fuoco per farli riaprire; il kriss per quanto fosse di una tempra eccezionale non sarebbe riuscito a nulla contro il guscio di uno spessore notevole.
Gettò uno sguardo attorno, andò a raccogliere una bracciata di legne secche, sparse in gran quantità nei dintorni, colle dovute precauzioni per non trovare qualche velenoso rettile nel cavo di esse, o dei ragni se non del tutto pericolosi almeno cagionanti la febbre, e tagliando due pezzi di legno dalla tinta biancastra e lucente, si mise a strofinarli vigorosamente l’un contro l’altro finché ne trasse una fiammella. Non ci voleva altro. Le legne presero fuoco come esca, mettendo in fuga insetti, ragni e qualche serpentello innocuo, e quando furono semi-consumate, gettò la colossale ostrica sui carboni ardenti.
L’effetto fu istantaneo: i due gusci si apersero lasciando uscire un solleticante profumo. Ritiratala dal braciere, il pirata sedendosi in mezzo alle erbe e dimenticando per un istante e la ferita e la situazione disperata in cui si trovava, assalì la colossale ostrica aiutandosi colla lama del kriss.
Non aveva ancor inghiottito venti bocconi che l’abbaiar di un cane venne a ferire le sue orecchie.
Abbandonò per un momento l’ostrica e tese le orecchie, per nulla contrariato dell’abbaiar di quell’animale, che forse poteva guidare qualche cacciatore, e chi sa, forse qualche indigeno.
– Ah! se fosse un indigeno della costa o un barcaiuolo che possedesse un canotto! – esclamò egli. – Saprei ben io trascinarlo fino a Mompracem per caricarlo poi d’oro, a meno che non diventasse un pirata. Possa non essere una giacca rossa, alla quale io nulla chiederò. Ferito, pur morente, finché l’energia e l’odio per la loro razza maledetta mi sosterrà, rifiuterò i loro aiuti, i loro veleni. Tutti ignorano su questo lembo di terra chi io mi sia; il selvaggio potrà ospitarmi senza paure.
Dopo di aver ascoltato alcuni istanti, Sandokan credette bene di aspettar la comparsa del cane o del cacciatore, terminando il pranzo, la cui carne molle ed eccellente gli solleticava l’appetito. Ad onta della ferita, sbarazzò mezzo guscio.
– Aspettiamo – disse egli distendendosi mollemente sulle erbe. – Forse l’uomo o il cane si mostreranno.
Gli abbaiamenti continuavano, talvolta avvicinandosi e talvolta allontanandosi. Pareva che l’animale seguisse qualche pista. Sandokan già s’impazientiva, quando udì una detonazione in lontananza.
– È una giacca rossa! – esclamò egli rizzandosi sulle ginocchia. – Che la tigre la divori!
Non si occupò più né del cane né del cacciatore, che d’altronde parevano allontanarsi e si coricò sotto un arecche. Rimase tutto il dì là sotto, conservando una immobilità completa, l’unica medicina occorrente per la ferita già pericolosamente infiammata per gli sforzi incontrati nella pesca e nella passeggiata sotto le foreste. Con tutto ciò la febbre tornò ad assalirlo con nuovo vigore, e prima che il sole tramontasse, batteva i denti, provava ancora atroci dolori e cominciava a delirare.
Quell’uomo che non avea mai saputo che fosse paura, l’ebbe a provare quando il sole calò al ponente e le tenebre cominciarono a invadere la foresta. Ebbe paura della notte, e, deciso a tutto affrontare anziché addormentarsi, raccogliendo le ultime forze si ripose in cammino, aggravando il male. Dove andava? Egli nol sapeva. Vagava sotto i grandi alberi provando brividi interminabili come fosse nelle regioni polari, con un vulcano nel cervello, cogli occhi di bragia e il kriss convulsivamente stretto. Avrebbe fatto paura al più coraggioso isolano se avesse avuto la sfortuna d’incontrarlo.
A poco a poco la marcia fra quei cespugli, quelle spine che gli strappavano gli ultimi lembi di veste, fra quei tronchi dove vi cozzava il capo senza vederli, fra quelle erbe taglienti come tante lame flessibili, divenne rapida.
Ebbe paura, lui, il pirata, Sandokan, la Tigre della Malesia, il cui solo grido avrebbe bastato per far fuggir mezza popolazione. Il delirio tornò ad impossessarsi di lui colla febbre, si credette inseguito e si mise a fuggire.
– Qua… qua… giacche rosse! Sono io… Sandokan, la Tigre… sono io! – urlava egli.
Precipitò la corsa senza sapere ove andasse, varcando ruscelli e cespugli, scalando alberi e attraversando paludi in miniatura, cadendo e risollevandosi come la sera precedente. Correva come un forsennato, invocando le giacche rosse colla spuma alle labbra, cogli occhi fuori dall’orbite. Volava incespicando ogni cento passi, non udendo più nulla attorno fuorché il celere martellar del cuore, senza provare i dolori della ferita, soffocati dal delirio.
Quanta via percorse, non poté mai saperlo. Il fatto si è che si trovò d’improvviso dinanzi a una prateria solcata da un fiumicello scaricantesi in un ampio stagno, nel fondo della quale, in riva alle acque, sorgeva qualche cosa di nero che pareva una abitazione.
Sostò un momento, anelante, senza forza di gridare, poi si precipitò nella prateria continuando la sua sfrenata corsa. Fece cento, forse duecento passi colla schiuma alle labbra, le mani nell’aria, poi rotolò come fosse fulminato al suolo e vi rimase immobile, irrigidito, lasciando sfuggir un ultimo gemito che si perdé fra le tenebre della notte.
CAPITOLO VII. La Perla di Labuan
All’indomani, dopo la corsa insensata della notte, quando tornò in sé, era chiaro. Il sole, appena appena sorto, illuminava la prateria, i lontani alberi della foresta, il ruscello, lo stagno, l’abitazione intravveduta la sera precedente e di più una mezza dozzina di uomini che curvi su di lui spiavano ansiosamente ogni suo movimento. Egli si stropicciò gli occhi e fece un gesto per fuggire.
– Povero uomo! – esclamò una voce commossa, che, quantunque parlasse la lingua delle giacche rosse, non aveva quell’accento secco e imperioso che il pirata solea credere.
Egli si scosse tutto. Credette di essere in preda a un sogno, tornò a stropicciarsi gli occhi, poi esaminò a uno a uno quegli uomini sempre curvi su di lui, che parevano interessarsi del suo stato.
Cinque erano indigeni dai volti stupidi e insignificanti, il sesto un bianco. Se l’occhio non s’ingannava, pareva avesse una cinquantina d’anni. Alto, ben fatto, ma con quella rigidezza che è il distintivo particolare della razza anglo-sassone, poteva essere ancora un bell’uomo ad onta dell’età. Un volto simpatico, aperto, benché incorniciato da capelli rossi, occhi intelligenti, due mani aristocratiche anzi che no e delle braccia che dovevano esser dotate di una forza non comune. Vestiva semplicemente: un gran cappello bianco sul capo – una cupola circondata da un velo – una giacca di stoffa azzurra, pantaloni di pelle e lunghi stivali a risvolta completavano l’abbigliamento. Non vi era da ingannarsi sulla sua origine. Sandokan lo riconobbe per una giacca rossa, pure non tentò di fuggire. Comprendeva che una nuova fuga, un giorno ancora passato nelle foreste, avrebbe causato infallibilmente la morte. Era un Inglese che lo raccoglieva, meglio; il gioco non sarebbe riuscito più ridicolo. Un Inglese curare Sandokan, la Tigre della Malesia! Vi era ben da ridere; la storiella raccontata a Mompracem avrebbe senza dubbio furoreggiato.
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