Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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Il pirata, che vedeva consumarsi quella energia sovrumana che lo sosteneva anche nei più terribili frangenti, rimase là immobile per cinque minuti semi-svenuto, delirante, porgendo orecchio a quelle credute grida che gli parevano dei compagni, poi rompendo quella immobilità che a poco a poco lo perdeva, stese le braccia irrigidite riprendendo, con quella potente volontà in lui abituale, il penoso cammino in mezzo a quei flutti sempre più neri e nella più profonda oscurità.

Percorse ancora venti passi, poi avvenne fra lui e un oggetto non ancora definibile un urto. Credette in sulla prima di aver da fare con qualche pescecane, e si tuffò cercando fra le vesti lacerate il suo kriss dalla lama serpeggiante ancora infisso nella larga cintola e l’afferrò con moto convulso.

– Ancora un nemico adunque! – pensò egli con collera concentrata. Ricomparve alla superficie; avvenne un nuovo urto, allungò le braccia e afferrò un rottame che galleggiava in balia dei flutti. Pareva fosse un pezzo di ponte, senza dubbio di uno dei due prahos, e che poteva offrire un valido aiuto alle esauste sue forze. Vi si aggrappò disperatamente uscendo a metà dalle acque e scoprendo la ferita dalla quale usciva ancora qualche goccia di sangue dalle labbra rigonfie.

Per due ore, quell’uomo che non voleva morire, pericolosamente ferito, lottò contro il sonno e lo svenimento che lo assalivano, sempre a metà immerso, aggrappato al rottame che lo traeva insensibilmente alla costa. Furono due ore di patimento indescrivibile, due ore che parevano due secoli, poi cadde sfinito sul rottame lasciandosi trasportare dal flusso, credendo talvolta di udire il fragor della risacca o le grida di naviganti o lo sbatter di remi o i tuffi dei pesci-cani.

Alle tre del mattino avvenne un cozzo che il fece tornare in sé. Tese le braccia, allungò le gambe raggrinzate ed irrigidite e gettò uno sguardo all’intorno mentre un fragore insolito rimuggiva attorno. Era a poche braccia dalla costa dove il flusso ve l’aveva tratto. Abbandonò il rottame e traballando come un ubbriaco sui banchi di sabbia, dopo di aver lottato venti volte colla risacca che lo rispingeva, guadagnò con mille stenti una riva bassa, sabbiosa, coronata di fitte foreste dove cadde affranto in mezzo alle alghe.

CAPITOLO VI. Febbre e delirio

La ferita poteva essere se non mortale certamente pericolosissima, chiedeva una pronta cura se non fosse stato altro per arrestarne l’emorragia che poteva compromettere la vita del pirata.

Sandokan non lo ignorava, e appena poté riaversi un po’ dalla spossatezza, pensò subito a medicarsi, con tutte le misere risorse che gli offrivano le piante medicinali della foresta.

Con sforzo supremo, aiutandosi colle mani e coi piedi, bestemmiando e gemendo egli si trascinò fino ai primi alberi e dopo di essersi appoggiato al tronco di un betel a poca distanza da un rivoletto d’acqua, esaminò a lungo l’orribile ferita.

Aveva ricevuto una moschettata quasi a bruciapelo a segno che la carne portava ancora le tracce del fuoco; la palla era penetrata nel fianco sinistro al di sotto della quarta costola e dopo di essere sdrucciolata fra le ossa, era andata a perdersi nell’interno senza aver toccato, a quanto pareva, le parti vitali.

A ogni modo se non era mortale, poteva diventarlo per mancanza di un pronto soccorso; Sandokan non l’ignorava, e ritrovando la sua potente energia anche in quei momenti supremi, dove le ore di vita potevano essere contate, si preparò a medicarsi con tutte le risorse che poteva disporre. Egli appressò le magre dita alla ferita le cui labbra erano gonfie pel continuo contatto dell’acqua marina, e non badando alle orribili sofferenze, l’aprì, l’esaminò con occhio pratico e la premè facendone uscire un rivoletto di sangue, dapprima leggermente tinto e poi di un bel rosso.

– Bene – mormorò fra i denti. – Si guarirà!

Vi era tanta energia in queste ultime parole, da credere che fosse lui il padrone della sua vita; vi era tanta fiducia in quell’anima di ferro sostenuta dalla vendetta, che non dubitò più di guarire, ad onta delle scarse sue risorse, ad onta della mancanza d’aiuti, e della terra straniera su cui riposava.

Si trascinò senza emettere un sol gemito fino al rivoletto d’acqua, la principale medicina che egli possedesse, e spruzzò ripetutamente la ferita, poi facendo a brani un lembo della sua camicia di fina battista, fece alcune filacce, e la fasciò con mano abile. Il più era fatto, si trattava ora di cercare qualche erba a lui solo nota e di godere un lungo riposo. Il mezzo di trarsi d’impiccio sarebbe venuto dopo.

Bevette qualche sorso d’acqua per calmare la sete ardente che lo divorava cagionata da una violenta febbre, sostò ancora pallido e disfatto sostenendosi colle mani e colle gambe, credendosi sempre in procinto di venir meno, poi riprese le mosse, gemendo lugubremente. Bisognava cercar una di quelle erbe, ed egli era uomo da trovarla, e la trovò a poca distanza di un gruppo di bambù.

Era una pianticella alta al più sei pollici con ramoscelli pieghevoli, e foglie lunghe lunghe. Il pirata, facendo uno sforzo che gli costò una centesima imprecazione, strappò le radici e senza badare alla terra raggruppata attorno, si diede a masticarla finché l’ebbe ridotta a una specie di pasta gommosa, che applicò sulla ferita.

Aveva appena terminato che l’energia l’abbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una mezz’ora.

Quando tornò in sé una sete ardente lo divorava e la febbre gli faceva provare interminabili tremiti a onta del sole che brillava. Si stropicciò gli occhi, poi si mise a strisciare cercando raggiungere il torrente, ma non vi riuscì.

Allora quell’uomo si rizzò sulle ginocchia alzando le braccia verso il cielo come una minaccia, come una sfida insensata e dal suo sguardo sembrò scaturissero scintille. Si credette più forte che mai.

– A me, mie forze! È d’uopo vivere!

Si rizzò girando attorno lo sguardo torvo, sostenendosi per un miracolo di potente energia e camminò o meglio barcollò fino al rivoletto dove cadde sulle ginocchia. Non voleva di più; tuffò le avide labbra fra le gorgoglianti acque, bagnò una seconda volta la ferita. Tentò una seconda volta di rialzarsi ma non fu capace e andò ad appoggiarsi ai piedi di un arecche, le cui sei od otto foglie di una sproporzionata grandezza (non minore di quindici piedi su sette di larghezza) proiettavano una benefica ombra.

Egli rimase cinque, dieci e forse più minuti immobile, col capo appoggiato al tronco dell’albero e le braccia conserte, guardando il mare che si apriva a lui dinanzi, quasi volesse indovinare ciò che succedeva a Mompracem, poi si scosse.

La sua faccia s’abbuiò terribilmente, i suoi occhi s’accesero d’uno strano fuoco, le labbra si contrassero fremendo mostrando i denti. Un pazzo scoppio di risa gli uscì dalla gola.

– Ah! – esclamò egli con rauca voce che pareva proprio il ruggito di una tigre. – Chi avrebbe detto che un giorno Sandokan avrebbe morso la polvere sotto i colpi di un incrociatore? Chi avrebbe detto che la Tigre della Malesia avesse a cedere dinanzi a un leone? E chi avrebbe detto che la Tigre ferita si ricovererebbe nella tana del nemico? Oh! quando vi penso sento ardermi il sangue dalla vendetta!…

Una spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.

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