Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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Il prahos scendeva la corrente lentamente, ma tanto da bastare per guadagnare in meno di cinque minuti il mare e per non far il minimo rumore che potesse svelar la silenziosa fuga. Si teneva sulla riva destra, rasentando colle cime degli alberi le frondi sporgenti della foresta.

Sandokan e Sabau, entrambi ai timoni, confusi fra tre o quattro tronchi d’albero che servivano di difesa a quel punto sì importante, rattenendo il respiro, guidavano la silenziosa navicella con mille precauzioni, cogli occhi dilatati come cercassero una preda nascosta fra i giunchi della riva.

Il prahos che continuava a scendere, d’un tratto si arrestò, dopo un breve strofinio. Sandokan, indovinando che l’ostacolo non poteva essere che una secca, non batté ciglio.

– Arrestati? – domandò Sabau, con un fil di voce. – V’è il nemico alla foce?

– Non è nulla; lascieremo subito la secca – rispose Sandokan.

L’equipaggio, quantunque ignorasse la causa, non si mosse. Solo si udì che armavano le carabine, mentre gli uomini di prua, camminando come fantasmi, si curvavano sul cannone di già bell’e carico.

– La marea monta – disse Sandokan dopo qualche minuto di silenzio occupato a osservare le acque.

– Il tempo passa. Non si potrebbe por mano ai remi? – mormorò il Malese.

– È inutile, il rumore è pericoloso nel luogo ove ci troviamo. Non vedi tu nulla sulla sponda opposta?

– Nulla, fuorché la massa nera della foresta. Il nemico non sospetta di nulla.

– Bene, aspettiamo!… – E Sandokan senza dire una sillaba di più, aspettò che la marea montasse.

Passò un quarto d’ora, poi si udirono dei fremiti a prua, qualche scricchiolio sotto la chiglia, poi il prahos, sempre in silenzio, tornò a galleggiare. A una parola gettata sottovoce da Sandokan agli uomini della manovra, una piccola vela dipinta a nero come le tenebre, un fiocco, fu spiegato sul bompresso. Il legno filando appena qualche miglio all’ora, superata la barra delle scogliere e gl’isolotti di sabbia visibili sol per l’onda che ci gorgogliava attorno, uscì tacitamente in pieno mare.

– Il vascello? – domandò Sandokan, cacciando la barra un po’ all’orza.

– Eccolo laggiù, a mezzo miglio sopravvento. Dorme all’âncora – mormorò Sabau.

– Ah, il furfante ha preso il largo adunque? Bene, peggio per lui; il campo sarà più vasto.

Il legno da guerra aveva cautamente frapposto più di mezzo miglio fra sé ed i pirati, pei quali pareva avere le sue paure, quantunque li avesse completamente fiaccati. Dormiva all’âncora ma non del tutto; i fanali di posizione brillavano al loro posto e dalla ciminiera usciva qualche scintilla, che andava perdendosi fra l’alberatura seminascosta in un pennacchio di fumo appena visibile. Vi era da credere che la fuga riuscisse.

Il campo era vasto; si poteva scendere al sud, o salire per qualche miglio al nord, e per quanto i cannocchiali da notte fossero puntati, si poteva sfuggire alle indagini e anche a un inseguimento.

– Tutto va bene – mormorò Sandokan sogghignando. – Il diavolo è con noi, come direbbe il mio buon fratello Portoghese. Saremo a Mompracem ancor prima che il miserabile se ne accorga.

– Si può gettare da un lato la prudenza? – domandò il Malese che si rodeva dall’impazienza.

– Oibò! Coprirsi di vele potrebbe essere pericoloso. Il bianco col nero contrasta.

Il vento era debole, ma il mare perfettamente tranquillo e oscuro come fosse un mare d’inchiostro; il prahos sotto la sua piccola vela, si mise a filare direttamente all’ovest, tenendosi un mezzo miglio al sud dal vascello, la cui macchina brontolava.

Pareva che tutto dovesse andare a meraviglia, grazie l’audace manovra del corsaro e l’imprudenza del nemico che nel momento in cui si doveva maggiormente vegliare, abbandonava il posto. La distanza fra Labuan e Mompracem non è molta, tutta riducendosi a 60 miglia, che con vento e con remi manovrati dalle braccia di ferro dei fuggiaschi, dovevansi fare in una notte o poco più. Si poteva al mattino trovarsi in vista della costa amica, che equivaleva alla completa riuscita; che montava se l’incrociatore dava la caccia alle spalle?

Al primo colpo di cannone tutti i pirati di Mompracem sarebbero usciti sui loro prahos in mare e per quanto filasse il piroscafo e facesse ruggire le bocche dei cannoni, non avrebbe certamente potuto sfuggire a quel formidabile assalto dei più arditi pirati dell’intera Malesia.

Sandokan, sempre al timone accanto a Sabau, misurava la distanza che lo separava dall’incrociatore visibile solo pei suoi fanali di posizione e per la sua mole. Contava metro per metro, cercava di poter scorgere ciò che succedeva sul legno nemico, fremeva d’impazienza e di collera, e allontanandosi ruggiva in cuor suo di dover abbandonare quella preda colossale. Quel singolar uomo quasi quasi dolevasi di fuggirsene così silenziosamente come un ladro notturno. Avrebbe desiderato qualche colpo di cannone, un abbordaggio e infine una pugna corpo a corpo, una vendetta soddisfatta, quando avesse pur da ricevere una scheggia di mitraglia attraverso il corpo. In quei momenti, egli credeva di essere tanto forte da poter distruggere da solo quell’equipaggio sei volte più numeroso e i suoi uomini dividevano i medesimi pareri. Un all’arme non sarebbe stato accolto che con un urlo di gioia.

Il prahos a poco a poco sotto nuovi soffi di vento, che spiravano dalla costa, accelerò sensibilmente la corsa lasciandosi dietro una scia che talvolta scintillava quasi da credere alla vicinanza di un lembo di mare fosforescente. Sabau notò quel scintillio che poteva attirare l’attenzione degli uomini di guardia del piroscafo e sorridendo, anziché spaventarsi, ne fece osservazione a Sandokan.

– Vedete voi la scia che diventa talvolta luminosa? – mormorò il Malese.

– La vedo, Sabau – rispose Sandokan. – La fosforescenza fra poco crescerà.

– Navigheremo come in un mare illuminato. La fortuna non è con noi, ma forse è un vantaggio.

Sandokan sorrise e guardò a poppa. Attorno al timone parevano scaturire vivide scintille e la scia prima biancheggiante diventava raggiante come se una luna splendesse sotto i flutti d’inchiostro. A prua, l’acqua che spumeggiava prendeva la medesima tinta, visibile fra quella oscurità profonda a due o tre miglia distante. Fra i pirati distesi sul ponte si udì un lieve mormorio, qualche bestemmia, qualche sogghigno, e tutti gli occhi si volsero al legno da guerra sempre addormentato sulle sue âncore e lontano già quasi un miglio.

– Dormono adunque? – mormorò Sandokan tormentando la ribolla del timone.

Il prahos continuò a filare sotto il suo piccolo fiocco, smuovendo i flutti che si facevano ognor più fosforescenti sotto le migliaia e migliaia di uova di pesci. Aveva già percorso una quarantina di metri senza che alcun segnalasse quell’insolito chiarore, quando un grido formidabile, un richiamo risuonò dal mare. I pirati si levarono come un sol uomo colle armi in pugno.

– All’armi! All’armi! – aveva gridato una voce che il vento aveva portato fino al prahos.

– Sangue di Satana, siamo scoperti! – esclamò un pirata di colossale statura, i cui occhi brillavano come quelli di un gatto fra la profonda tenebrìa.

– Tanto meglio! – esclamò Sabau, alzando la scimitarra.

Il prahos si arrestò.

I flutti appena appena agitati tornarono diventare oscuri e la scia scomparve.

Il grido era partito dal legno da guerra, non vi era dubbio. Per quanto la smania di avventarsi sul nemico ardesse nel petto di Sandokan, egli cercò di rendere invisibile il suo legno troppo lontano dall’incrociatore per venire a un abbordaggio e troppo debole di artiglierie per ingaggiare un terribile duello.

– Non movetevi! – comandò egli con quel tono di voce che non ammetteva replica.

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