Emilio Salgari - La tigre della Malesia
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– Sangue! Sangue! – urlarono come un sol uomo i due equipaggi.
– Ai remi! Ai remi! – comandò Patau sempre in posizione dietro al suo cannone, che andava accarezzando.
Trenta uomini, trenta macchine dalle braccia d’acciaio, si precipitarono sotto coperta dei due prahos che si tenevano a una rispettabile distanza l’un dall’altro per non offrire una mira troppo facile al nemico. Due secondi dopo i legni corsari, guizzanti come pesci, rapidi come battelli a vapore, uscivano a tutta velocità in pieno mare abbandonando ogni precauzione, movendo dritti al legno da guerra che continuava a presentare la prua a meno di cento metri dalla costa.
– Ah! – esclamò Sandokan quando vide la coperta del suo prahos quasi sgombra. – La danza sarà tremenda, ma si danzerà, se il birbante non si risolve a fuggire.
Egli si avvicinò a prua, dove Patau e quattro compagni lo aspettavano dietro il pezzo. Esaminò per qualche istante il legno nemico che aveva sospeso il fuoco intento senza dubbio in qualche audace manovra, e volgendosi verso il Malese sempre impassibile:
– Orsù, Patau, non abbiamo un istante da perdere. Seicento metri sono come seicento colpi di cannone, bastanti per fracassare le ali ai nostri legni. Colpo per colpo, occhio per occhio, dente per dente. Quando non avrai più occhio sicuro, cedi il posto e arresta la palla col petto!
– Bene, capitano – rispose il Malese. – Or mi vedrete all’opera!
Patau era uno dei migliori artiglieri che contasse la pirateria, un brav’uomo in fatto di colpi di cannone che sapeva dare alle palle una direzione infallibile che fracassavano sempre. Egli si curvò sul suo pezzo mirando il ponte dell’incrociatore, poi si rizzò colla miccia in mano.
Ancor prima che Sandokan avesse dato il comando, un lampo balenò a prua dell’incrociatore seguito da una sorda detonazione. La maistra fu tagliata nettamente come un giunco e precipitò sul ponte coprendolo a metà colla sua vela e coi suoi pennoni, mentre l’altro prahos rispondeva fracassando il bompresso che volò in mare a meno di un piede dal cannone ancora fumante.
– I nostri uomini cominciano bene! – disse Sandokan, traendosi di sotto le pieghe della vela. – Animo, Patau, rispondi alla provocazione! Fracassa loro qualche albero o fa saltare quel dannato cannone di prua.
– Eccomi, capitano. Colpo per colpo! Occhio per occhio! – rispose il Malese.
Avvicinò la miccia e dié fuoco. Il cannone s’infiammò ruggendo, vomitando ferro e fumo; il suo proiettile che si allontanava pochi metri sopra il livello del mare andò a schiantare la passerella del comandante con matematica precisione, mozzando nel medesimo colpo la ciminiera il cui fumo si sparse pel ponte soffocando i combattenti di babordo che dovettero abbandonare il posto.
– Ehi, Patau! – esclamò Sandokan cacciando la barra a tribordo. – Non addormentarti sul pezzo; fracassa se puoi la macchina a quel leone, fa saltare il suo magazzino delle polveri, fa mordere alle tue palle i cannoni del nemico. Non vedi tu, che si addormenta ancora?
Il vascello da guerra, colpito ripetutamente, pareva sorpreso di quel fuoco così matematicamente diretto. Il suo pezzo di prua non ruggì più, l’equipaggio si ritrasse dietro le murate precipitosamente, e il legno virando ancora presentò il tribordo al nemico che si avanzava ratto ratto a tutta forza di remi.
Pareva che si disponesse in maniera da fulminare con i suoi sei o sette pezzi i due legni corsari, che certamente non dovevano trovarsi a tutto loro agio in quel terribile duello, dove tutti i possibili svantaggi erano a loro conto. Sandokan stesso parve inquietarsi di quella manovra.
– Il nemico ci schiaccerà! – esclamò egli. – Se non l’abbordiamo tra cinque minuti saremo battuti.
In un salto si precipitò sotto coperta. I quindici uomini remigavano furiosamente coi pugnali fra i denti facendo sforzi sovrumani, incoraggiandosi col gesto e coll’esempio, promettendosi reciprocamente morti e sangue. Non occorreva di più per fargli raddoppiare le forze che toccavano l’estremo. – Non perdete un colpo di remo! Il nemico ci fugge! – gridò Sandokan arrivando fino ai banchi.
– Tuoni di Satana! – esclamò il Malese che tendeva i muscoli fino a farli quasi scoppiare.
– Dobbiamo adunque salire in coperta coi moschetti? – domandò un Daiasso.
– Silenzio! Ai remi! Ai remi! – comandò Sandokan.
Un nuovo colpo di cannone scoppiò al largo. Una palla di piccolo calibro, facendo saltare una tavola due piedi sotto il ponte, scoppiò nella stiva a pochi passi da Sandokan, che rimase impassibile. Una scheggia rimbalzando contro un’âncora, andò a fracassare la testa di un remigante che rotolò senza gettare un grido sotto i banchi spruzzando i compagni di sangue e di cervella. – Vedete che la danza comincia – disse freddamente Sandokan e risalì in coperta mentre i suoi uomini remigavano furiosamente inebbriandosi nel sangue dell’estinto compagno.
– Quel dannato là non perde i suoi colpi – mormorò Patau. – Ecco che si sveglia.
– Fuoco, Patau! Rompi le ali e fa saltare quella dannata batteria! – gridò Sandokan.
Ancora il legno nemico lo prevenne. Due colpi di cannone scoppiarono simultaneamente e due palle prendendo due diverse direzioni giunsero ancora una volta a destinazione. I due prahos ricevettero la scarica in pieno ventre e lo scoppio che ne seguì portò la morte di due remiganti.
– Ah! miserabile! – urlò Patau. – È così che si risponde. Aspetta un po’, vedrai!
Per la seconda volta accostò la miccia al cannone. La detonazione non era ancor terminata che il legno nemico parve incendiarsi. Un uragano di ferro volò sui due prahos allora lontani quattrocento passi, a cui risposero urla di furore e le scariche delle spingarde di poppa. Pirati, remi e artiglieri andarono sottosopra sotto il nembo di mitraglia; i due prahos furono rasati come pontoni.
Non avea ancor finito la scarica che ne seguì una seconda, poi il legno da guerra avvolto in nembi di fumo, crepitante sotto la moschetteria che grandinava palle sul nemico reso impotente in mezzo a quella tempesta che sfasciava i deboli suoi legni, si mise a indietreggiare a tutta velocità portandosi fuori di un possibile abbordaggio a seicento metri più lontano.
– Ah! miserabile! – urlava Sandokan rimasto illeso fra quell’uragano di scaglie.
Patau e due uomini rovesciati dalla caduta del trinchetto e dal cannone a metà sprofondato sul castello schiantato, si rizzarono quasi subito. Il pezzo d’artiglieria, trascinato in mezzo al ponte solcato in mille guise dal ferro nemico, fu in batter d’occhio caricato e puntato.
– Abbiamo da continuare la manovra? – domandò il Malese che si accingeva a rispondere ancora.
Sandokan non rispose. Egli guardò il legno nemico lontano un chilometro e più che fumava puntando le artiglierie verso la costa e che virava di prua con insolente provocazione, forte del suo diritto e dei suoi potenti mezzi. Egli misurò coll’occhio la distanza, guardò i prahos e si morse le labbra. Tirar innanzi, inseguire quel nemico fuggente che aveva il vento nel ventre e sì numerose artiglierie, sarebbe stata una pazzia. I due prahos di già seriamente avariati era da vedersi sarebbero stati sfasciati ancor prima di giungere all’abbordaggio. Tanto valeva farsi uccidere sotto la costa da pari a pari, in terra, petto contro petto, arma contro arma. Egli si avvicinò a Patau.
– Noi abbiamo preso una falsa via – diss’egli. – Il nemico è più forte di quanto credevo. Non vedi tu che ci sfugge quando tentiamo abbordarlo? Un cannone contro sei, è troppo!…
– Lo so bene io. Se non avesse la macchina nel ventre! – rispose il Malese quasi ferocemente.
– E due soli cannoni – aggiunse uno dei pirati che succhiavasi il sangue colante da un dito mozzato.
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