Emilio Salgari - La tigre della Malesia

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– Tutto va bene, tigrotto – rispose Sandokan. – Domani vedremo la Perla.

– E le giacche rosse?

– Sono più forti di prima.

– Ah! – esclamò il Malese sospirando. – I bei giorni sono finiti.

– Crederesti tu che la Tigre avesse paura? Cento leoni sarebbero pochi per incatenare la gran Tigre. Ritorniamo, Malese.

Sandokan raccolse la carabina e si diresse verso la costa seguito da Patau. Non avevano ancor percorso cento metri, che un colpo di cannone rombò verso l’alto mare.

La Tigre della Malesia cacciò fuori un ruggito come di belva ferita, poi precipitossi verso la foresta agitando come un forsennato la carabina.

– Vieni, Patau! Vieni! – gridò egli, facendo salti da tigre. – Vedo del sangue!

I due pirati in cinque minuti attraversarono il lembo della foresta e giunsero al fiumicello. Nel medesimo tempo un secondo colpo di cannone rombò sul mare, e in mezzo a un denso fumo che volteggiava nell’aria assieme a scintille, fu veduto il fumante incrociatore che moveva a tutto vapore verso la costa, sbarrando la ritirata ai legni da preda!

CAPITOLO IV. Pirati e Incrociatori

Non vi era da ingannarsi sulla manovra dell’incrociatore che cominciava a scagliare i più grossi proiettili alla foce del fiume. Aveva fiutato la presenza dei prahos pirateschi, e, benché non potesse ancora averli visti, ne indovinava la posizione, perché le sue palle erano passate pochi pollici sopra le murate perdendosi nella piccola palude.

Non vi era tempo da perdere se non si voleva farsi schiacciare ancor prima di poter agire; bisognava abbandonare il pericoloso posto dove vi era la probabilità di venir presi fra due fuochi da terra e da mare. Giacché la manovra era riuscita e l’incrociatore li aveva scoperti con rara sagacità, il meglio da farsi era quello di assalirlo. Vinti o vincitori bisognava guadagnare il largo.

Sandokan e Patau in pochi istanti avevano guadagnato i prahos, dove si era ormai organizzata la difesa; i cannoni caricati, gli uomini sotto le armi: non si domandava che di abbordare il vapore malgrado la sua mole, i suoi uomini tre volte più numerosi e la colossale portata delle sue artiglierie.

– Andiamo, figliuoli, salpate le âncore, issate le vele, impugnate le armi! – gridò il capitano. – Il miserabile che viene a sfidarci nei nostri nascondigli non può essere che un coraggioso. Ci aspetta.

– Tanto meglio, si danzerà nel sangue – disse un Malese mordendo la lama della sua scimitarra.

– Ci ubbriacheremo di polvere! – esclamò un Daiasso che si accostava ghignando a uno dei cannoni.

I due prahos con una scossa furono allontanati dalle paludose rive, nel mentre una terza palla fischiava fra gli alberi troncandone i rami. Le vele terzarolate per non avere impicci sul ponte vennero tese al vento. I due legni, senza rispondere alle provocazioni nemiche per riserbarsi i colpi a buona portata, si spinsero in mezzo al fiumicello portandosi sull’altra riva la cui ombra delle grandi piante bastava per sottrarli agli occhi più acuti.

Si trattava di sbucare improvvisamente in mare e di muovere arditamente all’abbordaggio, ancor prima che il nemico pensasse alla ritirata. Possedendo la macchina nel ventre, era lui il padrone che poteva portarsi da un luogo all’altro, evitare un incontro che fosse pericoloso e battere in breccia colle sue artiglierie assai più potenti di quelle dei pirati. Sandokan aveva di già calcolato sui numerosi vantaggi di lui e cercava sventarli giuocando d’astuzia.

– Non abbiamo fretta – diss’egli a Patau che si teneva alla barra. – Cerchiamo di risparmiare i nostri uomini che sono contati, non esponiamo troppo i nostri legni al fuoco dell’assalitore che ha potenti cannoni: lo abborderemo questa notte, se occorre. Non lasciamolo sfuggire giacché il leone si è gettato dinanzi alla tigre.

L’incrociatore avea preso posto a seicento metri dalla costa e si teneva sotto macchina senza gettare il più piccolo ancorotto onde tenersi completamente libero nei suoi movimenti, assalire o retrocedere, determinato a scovare i pirati a colpi di cannone. Il suo pezzo di prua, senza dubbio un grosso cannone, tuonava ogni cinque minuti cangiando direzione, tirando a caso, non giungendo a scorgere i due legni che, semi nascosti e nel più profondo silenzio, scendevano lenti lenti la corrente aspettando l’istante di correre all’abbordaggio.

Tutti i pirati erano pronti a qualunque sacrificio, decisi di sbarazzare il loro mare da un nemico sì potente che finiva col diventare uno spauracchio anche pei più coraggiosi. Ognuno si giurava di farla finita una volta giunto sul ponte dell’incrociatore, scannare il nemico benché tre volte più numeroso o almeno farlo saltare colla Santa Barbara. Sandokan aveva dato gli ordini precisi, niuno li avrebbe cangiati; guerra avea promesso, guerra doveva essere. La vittoria sarebbe venuta dopo.

I due prahos continuarono a scendere la corrente senza più inquietarsi delle detonazioni dell’incrociatore. Le palle fischiavano nei boschi abbattendo gli alberi, rimbalzando fino al fiume, forando più d’una volta le vele, ma non si rispondeva. Si voleva mordere la carne del leone.

A venti metri dalla foce fu visto il legno nemico che continuava a tirare col solo pezzo di prua. Patau ad un segno del capitano si curvò sul cannone che pareva impaziente di ruggire.

– Guarda! Guarda! – esclamò Sandokan volgendosi verso il prahos che veniva dopo.

Una nube di fumo sfuggì dalla prua del legno da guerra seguita da una detonazione che si ripercosse sotto gli alberi della costa. La prua del prahos fu passata da un proiettile come fosse stata di cartone, facendo saltare le tavole del castello su cui poggiava il cannone. Il pezzo si rovesciò mentre una colonna d’acqua si precipitava fischiando nella stiva.

– Quei cani là tirano a meraviglia! – esclamò un Daiasso, che si precipitò con tre o quattro altri compagni sotto coperta, dove l’acqua di già invadeva il paramezzale.

– Se non ci sbrighiamo, la sarà finita prima di filare cento braccia – mormorò un Giavanese.

– Silenzio! – gridò Sandokan facendo lampeggiare la lama della scimitarra.

Il legno da guerra alla vista dei due prahos pirateschi aveva, dopo il colpo di cannone così fortunatamente riuscito, fatto un mezzo giro a tribordo dirigendo la prua verso il nemico, pel quale pareva avere un certo rispetto che poteva chiamarsi un po’ di paura, ad onta della sua mole e della sua potente artiglieria. Si udiva sul suo ponte rullare il tamburo e squillare la tromba come in un giorno di battaglia, uomini che comandavano e lo sbuffar della macchina che vomitava torrenti di fumo dalla ciminiera ristretta in mezzo ai quali scintillavano delle scorie.

Da ogni parte si vedevano artiglieri in posizione dietro i loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano pronti a bombardare il nemico con turbini di ferro, soldati dalle giacche rosse visibili a grandi distanze e che offrivano un sicuro bersaglio e marinai armati di carabine issati sulle coffe, sui pennoni, sulle sartie, sulle griselle che gesticolavano vivamente impazienti di cominciare il loro formidabile fuoco di moschetteria.

Sandokan a tutti quei preparativi, a tutte quelle mosse del legno da guerra che si teneva sotto vapore per battere in ritirata dinanzi a trentasette uomini, si era messo a ridere. Quell’uomo singolare trovava che tutti quei preparativi erano ancor pochi dinanzi a lui, cui il nome sol bastava a triplicare le forze dei suoi pirati.

– Eh! – esclamò egli rizzandosi quanto era lungo. – Non scherziamo di troppo, figli miei, che il leone ha aperte le sue unghie. Orsù, tigrotti miei, mano ai remi e a tutta velocità all’arrembaggio senza risparmiare, fra mezzo, qualche moschettata. Una volta sul ponte, sangue e cadaveri!

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