Emilio Salgari - La tigre della Malesia
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Sandokan rimase sul ponte assieme agli uomini di guardia, assiso a poppa tenendo una delle ribolle, collo sguardo che balzava dalla bussola al mare, porgendo ascolto al lieve russar degli addormentati e al frangersi dell’onda sulla prua del legno. Si avrebbe detto che quell’uomo cercasse di raccogliere qualche rumore estraneo a quello del mare. Chi sa? un lontano colpo di cannone, che poteva tuonare in direzione di Mompracem, o che cercasse colla potenza del suo occhio da tigre di attirare la preda fuggente e di scoprirla; chi sa? forse il fumante cacciatore.
Gli uomini di guardia confusi fra gli attrezzi, seduti o ritti, parevano condividere i pensieri del loro capo. Gli occhi loro, che rilucevano come carboni nella profonda oscurità, balzavano dalle vele al mare scrutandolo nei più lontani orizzonti, cercando avidamente una preda sempre sospirata o un pericolo. Poco montava che si dovesse sfidare colpi di cannone e colpi di scure, con gran pericolo della pelle; bastava loro veder della preda, menar le mani insanguinate su cento e cento vittime, tuffarle in nuovo sangue, ubbriacarsi al fumo della polvere e veder morti e morti mutilati, guazzar sui bagnati ponti.
Ma nessuna vela si mostrava nel cerchio abbracciato da quei potenti occhi, fuorché le tenebre sovrastanti ai flutti color di inchiostro che rimuggivano sordamente come uscissero da un abisso e che venivano a cozzare sulla prua del prahos frangendovisi sopra e lasciando solo allor intravveder un leggero scintillio, che si cangiava sulla scia in un gorgogliamento luminoso perfettamente visibile in quella oscurità.
Alla mezzanotte il vento, sino allora debole, sembrò svegliarsi colla comparsa della luna, che faceva capolino fra le nubi. I due prahos parvero rialzarsi sotto quella nuova spinta e accelerarono la corsa verso l’est poggiando di qualche quarto al nord, dirigendosi verso le Tre Isole, che non dovevano esser gran fatto distanti. E invero poco dopo, rischiarate dalla luna, che tornava a mostrarsi in uno squarcio dei negri vapori, furono vedute tutte e tre benché vi sia fra loro una rispettabile distanza.
Parevano uscire dal mare come improvvisamente, di un color fosco, di una struttura più bizzarra che pittoresca in quell’ora, vere sentinelle avanzate di Labuan e di Borneo, che potrebbero far solida barriera alla baia di Varauni dalla quale non distano molto.
Sandokan appena che poté vederle abbandonò la ribolla a uno de’ suoi uomini e discese nella sua piccola cabina. La vista di quelle isole faceva quasi a lui credere di esser a Labuan che voleva dire lontano dal fumante incrociatore che alla mattina navigava presso le coste meridionali di Mompracem, e quindi libero da un improvviso attacco da parte sua che avrebbe potuto riuscire disastroso.
La cabina di Sandokan era ben ristretta a bordo di quel prahos; non mancava però di una certa eleganza non dissimile da quella della sua abitazione, e che non toglieva che vi dormisse a suo agio. Era un caos di piccoli mobili gli uni più graziosi degli altri, ma gli uni più avariati degli altri, un miscuglio di sete e di tappeti che l’ingombravano, che la soffocavano addirittura sotto le pesanti pieghe e in mezzo alle quali vedevansi armi mescolate a bottiglie e tazze con bombe.
Sandokan, senza levarsi un nulla del vestito, si stese in mezzo ai tappeti e non tardò ad addormentarsi come un uomo della sua tempra, cui un cuor di ferro soffoca le urla delle vittime cadute sotto l’acciaio dell’assassino e i cui occhi non vedono né le ombre né il sangue.
Tutta la notte i due prahos veleggiarono in pieno mare, sempre in vista delle Tre Isole, correndo bordate per la lenta raffica, che a poco a poco collo spuntar del giorno girava all’est. Ma per quanto il vento divenisse contrario non impediva che i due rapidi legni guadagnassero via, aiutati di tratto in tratto dai remi manovrati da robuste braccia che li avean conosciuti fin dalla più tenera età.
Al primo raggio di sole, che invase bruscamente il mare scacciandone la cupa tenebra, sette od otto miglia lontano fu veduta Labuan. Quasi nel medesimo istante Sandokan comparve sul ponte.
– Patau! – esclamò egli con quel tono che non ammetteva replica né ritardo per quanto minimi fossero.
Il Malese abbandonando il remo in un sol salto gli fu vicino, sempre col medesimo volto fra l’ilare e il furbesco, come un uomo che ha ormai dimenticato la palla di cannone.
– Comandante! – rispose egli facendosi innanzi francamente.
– La tua palla? – domandò Sandokan con strano sogghigno.
– È sul petto – rispose il Malese, – la prima che parte sarà mia.
– Bene, conosci tu una baia dove non si possa essere molestati da quei cani dell’Australia?
– La conosco.
– Bene, dirigi i prahos.
Ad un ordine del Malese i due legni da preda virarono di bordo dirigendosi verso il sud dell’isola.
Labuan è un lembo di terra che dista appena otto leghe da Borneo e che ha una circonferenza di circa venticinque miglia.
Si eleva a 24 metri sul livello del mare; semplici alture tengono luogo di catene di monti, numerosi corsi d’acqua tengono luogo di fiumi, ma i più durante la stagione calda lasciano il letto completamente asciutto. Ha però magnifiche foreste che potrebbero somministrare eccellenti legnami da costruzione, una graziosa vallata con pascoli al nord-est dove finisce in una tranquilla baia. Vedute pittoresche rendono piacevole il soggiorno su quel lembo di terra, che ogni giorno acquista più importanza grazie le scoperte di vene di carbon fossile che si trovano in gran numero, specialmente nelle vicinanze dei fiumi.
Gl’indigeni non sono numerosi e sono tanto stupidi, che illusi dalla presenza degli stranieri e da regali di due soldi, si sottomisero al velenoso giogo inglese che lentamente ma sicuramente andrà decimandoli per isbarazzarsi di esseri che potrebbero un giorno dar noia alla giovane colonia.
Fu nel 1846, 24 dicembre, che il capitano Rodney Mundy comparve pel primo a bordo dell’Iris e che ne prese bellamente possesso, dopo di avere spaventati i nativi facendo tuonare le sue artiglierie, come volesse mostrare a quegli esseri semplici la potenza del leopardo inglese. Ed essi, dopo le danze d’onore e una festa si sottomisero senza alzar una sola arma in difesa della terra natia.
Da quel tempo gli Inglesi vi avevano fondato la cittadella di Vittoria e si affrettavano a lanciare in mare vapori di ferro per reprimere la pirateria flagello di quei disgraziati mari. Sandokan non lo ignorava, no, ed era anzi per questo che voleva prendere terra nel fondo di qualche canale, di qualche seno al sicuro da improvvisi attacchi per poter poi agire a suo bell’agio.
I due prahos, dopo di aver fiancheggiato per breve tratto la costa coperta da fitti alberi, in mezzo ai quali torreggiava qualche tek, navigando lentamente e con estrema prudenza per non dar sospetto a qualche colono che battesse i dintorni, si cacciarono silenziosamente in un piccolo fiume, che alla foce avevasi scavato poco a poco un seno semi-nascosto da piante palustri.
Le âncore furono gettate con buona riuscita su di un fondo sabbioso, le vele ammainate senza far rumore come lo dovevano due visitatori che volevano mantenersi incogniti, e i prahos spinti verso la riva destra, nascondendoli del tutto sotto l’ombra dei grandi alberi e dei canneti, che fiancheggiavano una piccola palude di due o trecento metri di estensione. Un incrociatore che avesse battuto la costa, non sarebbe riuscito a scoprire quei due legni pirateschi che si tenevano imboscati come le tigri nel delta del Gange che spiano, sotto le grandi foglie acquatiche, la preda.
Sandokan e Patau sbarcarono, mentre che il restante dell’equipaggio rimaneva a bordo rigorosamente consegnato. Bisognava agire più che prudentemente per affrettare i piani del formidabile capo, che già contava non solo di veder la Perla, ma di mettere a ferro e fuoco se non tutta almeno una parte dell’isola.
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